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A tu per tu con Jenova Chen

Il più grande game designer al mondo?

"C'è questa frase di Sant'Agostino..."

Solo Jenova Chen, il designer di Flower e Journey, poteva citare un teologo del Trecento per iniziare una riflessione sulle dinamiche del multiplayer online.

"Agostino ha scritto: 'Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei mari, dei fiumi, delle stelle; e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi. Eppure ogni individuo è un miracolo. Che strano che nessuno veda la meraviglia nell'altro'.

"Nei videogiochi si dà per scontato che se incontri qualcuno online, sarà una brutta esperienza - continua - pensi che saranno degli stronzi, giusto?"

"Ma pensate un attimo: in fondo nessuno di noi vuole fare lo stronzo - spiega - io credo che spesso non è il giocatore a essere cattivo o antipatico. È il game designer che l'ha fatto diventare uno stronzo. Se passi tutto il giorno a ucciderti con gli altri come puoi pensare di essere gentile? Tutti i giochi per console prevedono l'uccisione dell'altro, o di uccidere qualcuno insieme... vedi? Sono i giochi che ci fanno diventare delle brutte persone".

Chen ha il tipico modo di parlare dei nerd che studiano ingegneria informatica: quietamente pensieroso in un modo che potrebbe essere frainteso come nervosamente arrogante. Ma le sue parole sono quelle di un esuberante predicatore, di un sermone umanista che invita la comunità dei game designer ad agire per creare un sistema migliore, che generi un mondo online migliore.

Se fossimo una rivista di musica del 1960 potremmo diremmo che Chen è carico di "soul", di qualcosa che sta a metà tra il santone e la rockstar, ma da dove arriva tutto ciò? Quale percorso lo ha portato a diventare così?

Il richiamo all'avventura

All'età di 14 anni, Jenova Chen si sporse dal suo piccolo letto in un piccolo appartamento cinese, appoggiò a terra il controller e cominciò a piangere.

Un primo piano di Jenova Chen.

"I miei genitori erano molto rigidi riguardo ciò che potevo leggere o guardare. Avevo un accesso limitato ai racconti, alla televisione o ai film, quindi questo videogioco fu il mio primo contatto con un media in grado di farmi arrivare alle lacrime. Fu il mio primo pianto e fu intenso e profondo. Fu un'esperienza mai provata prima"

Il gioco in questione è The Legend of Sword and Fairy, e ha avuto sul mercato cinese lo stesso impatto che Final Fantasy 7 ha avuto nel resto del mondo. La sua storia di amore e perdita ha pesantemente influenzato un'intera generazione di videogiocatori cinesi. "Riguardandolo adesso lo trovo un gioco poco profondo e pieno di cliché -ammette Chen - ma fu la prima volta in cui un medium aveva quell'effetto su di me e me ne innamorai".

"Se fossimo una rivista di musica del 1960 potremmo diremmo che Chen è carico di "soul", di qualcosa che sta a metà tra il santone e la rockstar"

Attraverso quelle lacrime arrivò la catarsi e, quando si furono asciugate e tornò la pace, Chen cominciò a farsi domande sulla propria esistenza. "Mi ritrovai a chiedermi: che tipo di vita voglio vivere? Cosa è giusto? Cosa è sbagliato? Perché son qui? Alla fine, mi sentii una persona migliore".

"Quindi cominciai a pensare al futuro e decisi che volevo dedicare la mia vita a far vivere agli altri l'esperienza che avevo appena vissuto. In quel periodo non pensavo di farlo attraverso i videogiochi ma sapevo che sarebbe stato attraverso qualcosa".

Per i primi 22 anni della sua vita, Jenova Chen non lasciò Shanghai.

La sua infanzia era definita dai confini, fisici e genitoriali. L'affollamento della città aveva confinato la sua famiglia in un piccolo appartamento, la politica cinese di un solo figlio per famiglia lo aveva privato di eventuali fratelli, e la mancanza di un piano pensionistico sia pubblico che privato scaricava interamente sulle sue spalle la sussistenza dei suoi genitori una volta anziani.

Il peso dell'avere successo a scuola con lo scopo di ottenere un buon salario era immenso. E per Chen, un giovane e talentuoso studente in una scuola per ragazzi particolarmente dotati, questa pressione era ancora più alta. "É un sistema crudele - spiega- ogni semestre i tre ragazzi con i risultati peggiori vengono cacciati via. Io ero in una classe d'elite, quindi se fossi stato mandato in una classe normale tutti mi avrebbero dato del perdente".

Confini, competizione, classifiche: questo è tutto ciò che doveva affrontare Chen ogni giorno, e che ritroviamo nei videogiochi. Eppure, curiosamente queste caratteristiche sono assenti dalle sue creazioni. Viene da chiedersi se l'essere cresciuto all'interno di questi confini fisici e psicologici sia ciò che l'ha portato lontano dai giochi competitivi e basati su obiettivi certi. Dopo tutto, Flower è ambientato in campagna, e i suoi capitoli sono inframmezzati da scene d'intermezzo in cui vediamo un fiore intrappolato in un appartamento, magari mentre sogna di fuggire da Shangai, e anche Journey, la sua ultima creatura, è un gioco in cui la competizione in multiplayer è stata totalmente rimossa.

Il fatto che Chen sia cresciuto nella giungla d'asfalto di Shanghai ha senz'altro contribuito alla sviluppo di un titolo agreste come Flower.

Eppure, se posto davanti a questo interrogativo, Chen risponde in maniera tutt'altro che tranquilla, anzi, l'ipotesi sembra irritarlo. "Io sono una persona competitiva - ribatte pronto - gioco e amo titoli competitivi. Ero un campione nei picchiaduro durante il liceo, sono stato campione di StarCraft al college e ancora gioco a DOTA. Adoro vincere. Letteralmente, lo adoro. E quando si tratta di fare videogiochi, non è che ami i giochi pacifici, faccio questo genere di giochi sempre perché adoro vincere. Per me la grandezza di un uomo si misura nel modo in cui contribuisce alla società. L'industria dei videogiochi non ha bisogno di un altro FPS, ha bisogno di qualcosa che la ispiri.

"Dopo la sua esperienza con The Legend of Sword and Fairy a 14 anni, Chen decise che sarebbe diventato un direttore d'animazione"

Quindi probabilmente il suo essere competitivo lo ha portato a volere "vincere" nel mondo del game design, e per aumentare le sue chance di vittoria ha scelto di farlo in campi meno esplorati. "Esatto - ribatte - non ha niente a che vedere con un mio odio verso il sistema educativo. Io sono sopravvissuto alla vita scolastica".

Un cammino di sfide

Dopo la sua fondamentale esperienza con The Legend of Sword and Fairy a 14 anni, Chen decise che sarebbe diventato un direttore d'animazione, e avrebbe creato lungometraggi in stile Studio Ghibli.

Ma durante il college alcuni suoi amici decisero di creare un gioco e coinvolsero Chen per fargli realizzare le animazioni e i vari asset. "Alla fine facemmo tre giochi, ovviamente erano tutti cloni, ma ottimi cloni! Uno era la copia di Diablo e un altro di Zelda 3D, tipo The Wind Waker".

Ambizioso il ragazzo, non trovate?

Un'immagine di The Legend of Sword and Fairy: qui è iniziata la carriera di Jenova Chen nel mondo dei videogiochi.

"Lo so, ma non avevamo idea di cosa volevamo fare". Una volta laureato, Chen vinse una borsa di studio cinematografica alla Southern California, e si dimenticò a lungo della sua esperienza come game designer. Ma quando il suo professore scoprì la sua abilità nel creare codice (d'altronde aveva studiato la materia al college), fu arruolato nel programma della scuola per creare un gioco.

Invece di opporsi a questa decisione, Chen la sposò appieno. Il suo lato competitivo probabilmente capì che in questo modo avrebbe potuto avere un impatto sul mondo più grande rispetto a quello dato da Hollywood.

"I film sono molto codificati, c'è un genere per ogni sentimento che vuoi provare - continua - non importa la tua età, sesso, nazionalità o umore, c'è sempre qualcosa che fa al caso tuo. Ma con i giochi… c'è il thriller, l'horror, l'azione, lo sport, ma non c'è romanticismo, non c'è dramma, non c'è voglia di documentare qualcosa o porsi domande sull'esistenza. Questi sono i sentimenti basilari che gli uomini vogliono provare, ma non sono presenti nei videogiochi. Questo è uno dei motivi per cui la gente gioca sempre meno via via che invecchia, vogliono provare sensazioni che i giochi non sono in grado di offrire.

Secondo Chen dunque, la maggior parte dei videogiochi offre esperienze modulate su un pubblico giovane, ignorando quasi del tutto temi più adulti.

"I giochi sono fondamentalmente strumenti per imparare qualcosa - Jenova Chen"

"I giochi sono fondamentalmente strumenti per imparare qualcosa - spiega - quando siamo piccoli e giochiamo al parco stiamo imparando qualcosa sul nostro corpo e scopriamo le dinamiche base della socializzazione. Crescendo conosciamo gli sport e la capacità di lavorare in team, ma alla fine difficilmente vedi persone sopra i 35 farlo ancora. Questo è perché hanno già imparato a pieno queste abilità. Le persone cresciute giocano a poker e il poker è un gioco di calcolo, inganno e manipolazione, abilità utili da imparare nella vita".

"Anche il golf è un ottimo esempio, non tanto per il gioco in sé, ma per le relazioni sociali che sviluppa, e l'interazione e i segnali che ottieni durante una partita"

"Credo ci siano solo due o tre modi per creare un gioco che piaccia agli adulti. Puoi avere un approccio intellettuale, dove viene rivelata una nuova prospettiva sul mondo a cui non avevi ancora pensato, come succede in Portal. O puoi utilizzare le emozioni, entrare nel cuore di qualcuno. É facile farlo con un bambino, ma è molto difficile farlo con un adulto".

Journey incarna la convinzione di Chen secondo la quale gli adulti hanno bisogno di esperienze così autentiche da diventare ricche di significato.

"L'unico modo per sensibilizzare un adulto è creare qualcosa di molto rilevante per la sua vita, o fare qualcosa di così autentico da diventare ricco di significato. Per raggiungere certe vette c'è bisogno della catarsi. Solo così, dopo una forte emozione, l'adulto può riflettere su di sé, in cerca del senso della propria vita. Questo è il modo in cui credo di poter creare giochi per le persone intorno a me".

"Il terzo modo in cui puoi farlo è creando un ambiente sociale dove le persone possano stimolarsi a vicenda sia intellettualmente che emotivamente. Questi, dunque, sono gli unici tre modi per coinvolgere un adulto".

Quindi Chen comincia a studiare game design alla scuola di cinema e, durante un'estate, la USC lo manda alla GDC. "In quel periodo per me era naturale pensare che ogni ragazzino americano fosse un genio del coding come John Carmack", dice ridendo.

"Ma arrivai allo stand di IGF per dare un'occhiata ai giochi degli studenti, e dentro di me pensai 'questi videogame fanno schifo!'. I giochi che facevo al college erano molto più belli di uno qualunque dei titoli che vedevo esposti. Ero con un mio amico, mi voltai e gli dissi: 'Facciamo un videogame, possiamo fare meglio di così'".

"Quando arrivai alla GDC per dare un'occhiata ai giochi degli studenti, dentro di me pensai 'questi videogame fanno schifo!' - Jenova Chen"

Quando Chen e il suo amico tornarono alla USC, iniziarono subito a lavorare su un titolo chiamato Cloud, un gioco di volo che doveva essere 'un simulatore di sogni d'infanzia'. Tutti i bambini sognano di volare ma per Chen, costretto nei suoi confini, il desiderio era probabilmente più forte. I due distribuirono il gioco online gratuitamente e non ci volle molto perché cominciassero ad arrivare le prime email.

"Mi arrivavano messaggi da persone in Giappone che avevano pianto mentre giocavano. Qualcuno arrivò a dirmi che ero una bella persona perché avevo creato quel gioco. In tutta la mia vita nessuno mi aveva mai detto che ero una bella persona. Quindi mi misi a sedere e cominciai a chiedermi: quali sono le ragioni del successo? Quali sono le differenze tra questo gioco e gli altri? L'unica differenza che mi veniva in mente è che il gioco ti faceva sentire diverso. In quel momento realizzai che quello era lo scopo della mia vita. Invece di diventare un regista di film o di cartoni animati, potevo cambiare il modo in cui le persone vedevano i videogame. Potrei persino spingermi ad affermare che sento di avere la responsabilità di farlo".

La ricerca spirituale

Nel 2006, due anni dopo la delusione di Chen di fronte allo stand IGF, il suo gioco, Cloud, vinse il premio Student Showcase allo stesso evento. Nonostante ciò, il designer è sempre stato critico verso la propria creazione, sostenendo che i controlli non fossero "intuitivi".

Un'immagine di Cloud, grazie al quale Chen vinse il suo primo premio, lo Student Showcase alla GDC.

Ma cosa ha fatto scattare negli appassionati per guadagnarsi una tale attenzione? " Credo che sia tutto legato all'innocenza e alla solitudine, alla possibilità di fare ciò che vuoi, ma con un pizzico di malinconia".

L'isolamento e il distacco sono senza dubbio presenti nei lavori di Chen, ma perché ne è così attratto?

"Credo sia dovuto al fatto che chi crea passa da solo la maggior parte del proprio tempo - spiega - ma c'è anche un bisogno di connessione, in quanto artista. Tutti vogliamo essere compresi, e che la nostra voce venga ascoltata. Il fatto di aver ricevuto 500 email solo per Flower… mi sono sentito come se avessi detto qualcosa, e qualcuno mi avesse ascoltato".

"E visto che in quanto essere umani siamo spesso soli, il bisogno di essere accettati dagli altri è forte. Quando le persone sperimentano un senso di solitudine condivisa la loro reazione immediata è uscire dal proprio guscio e cercare un contatto. Credo che chiunque stia creando qualcosa sia sempre in cerca di connessione, di contatto".

In fondo anche noi, in quanto giornalisti, non cerchiamo forse qualcuno che ascolti la nostra voce?

"Il voler condividere un senso di solitudine comune è il cuore di Journey"

Questo voler condividere un senso di solitudine comune è il cuore dell'ultima creazione di Chen, Journey, un gioco che esprime a pieno la visione del designer, ovvero la voglia di creare uno spazio in cui provare nuove emozioni.

Ma con tre anni di sviluppo (uno più del previsto) per un gioco che dura circa tre ore, è evidente come il progetto sia apparso da subito tutt'altro che semplice e definito, con le emozioni evocate da Chen che faticavano a venire a galla. "Journey doveva essere un gioco per quattro giocatori - rivela - perché i titoli di questo tipo offrono molte più dinamiche sociali. Ma ero ossessionato dall'idea di creare una connessione unica fra due persone, quindi capii che due persone erano di troppo per ciò che volevo. È molto più difficile dare senso a un gioco per quattro persone che per due".

"Il motivo per cui volevamo creare Journey, al di là della catarsi, era creare una connessione reale tra due persone. L'ho fatto perché tutti dicono che ora va di moda il social gaming, ma niente è socializzante come lo scambio di emozioni tra due esseri umani. In quasi tutti i giochi l'unico scambio fra due giocatori avviene in termini di proiettili o di numeri. Su Facebook sono più numeri, su PC e console proiettili.

Statistiche e proiettili, secondo Jenova Chen, non contengono elementi realmente socializzanti e rappresentano la sconfitta del multiplayer.

"Quindi in quanto designer volevo vedere se riuscivo a creare uno scambio d'emozioni. Inizialmente ci concentrammo su ogni tipo di meccanica cooperativa. Salvare qualcuno, curarlo, aprire una porta insieme, cose tipo "tu premi quell'interruttore, io premo questo e qualcosa si apre". Ma poi capii che quelli erano soltanto scambi meccanici. Per creare scambi d'emozioni devi preparare i giocatori ad essere pronti a farlo".

"Ad esempio, se io entro nel centro congressi della GDC sto pensando a dove devo andare e quando. Sono in una sorta di modalità "risoluzione compiti". Non mi interessa la socializzazione. Questo è esattamente ciò che succede nella maggior parte dei videogiochi. La maggior parte delle esperienze multigiocatore riguardano il risolvere dei compiti. Ma se i giocatori sono con questo stato d'animo non sono nel giusto ordine di idee per condividere emozioni. Quindi per prepararli dobbiamo rimuovere tutto ciò che riguarda i compiti. Tutte le quest e i puzzle se ne dovevano andare da Journey, solo in quel modo i giocatori sarebbero stati pronti per iniziare un contatto sociale".

"Quindi - continua - abbiamo cominciato a lavorare sul farvi sentire soli. In questo stato mentale i giocatori cominciano a sviluppare un bisogno di connessione, una voglia di avvicinarsi a qualcuno o qualcosa che gli somigli. Dunque abbiamo fatto semplicemente questo, abbiamo rimosso tutto per creare un ambiente in cui le persone potessero solo scambiarsi emozioni".

"Sembra quasi che con la sua assenza di meccaniche, Chen voglia replicare un tipo di interazione sociale che accade nella vita reale"

Sembra quasi che con la sua assenza di meccaniche, di possibilità, Chen voglia replicare un tipo di interazione sociale che accade nella vita reale. Un esperimento interessante, che può o meno avere un senso più ampio, ma forse il designer vuole comunicare un concetto in particolare?

E qui torniamo alla citazione di Sant'Agostino: "Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei mari, dei fiumi, delle stelle; e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi. Eppure ogni individuo è un miracolo. Che strano che nessuno veda la meraviglia nell'altro".

"Nei videogiochi c'è sempre la premessa che, se incontri un giocatore online, sarà un'esperienza poco piacevole. Tutti danno per scontati che gli altri saranno stronzi, giusto? Ma in fondo nessuno di noi nasce per comportarsi male. Io credo che molto spesso non sia il giocatore a essere stronzo, è il game designer che indirizza il suo comportamento. Se passi le tue giornate fraggandoti, come puoi comportarti in maniera gentile? Tutti i giochi per console si basano sull'uccidersi a vicenda o sull'uccidere qualcuno insieme... Sono i nostri giochi a farci comportare da stronzi".

La solitudine in Journey è, secondo il suo creatore, la premessa affinché i valori umani escano allo scoperto nel gioco.

"Quindi, con il sistema giusto, l'umanità delle persone verrà fuori. Voglio fare in modo che i valori umani escano allo scoperto nei videogiochi e cambiare la premessa".

E per rendere ancora più evidente il suo concetto, Chen tira fuori il cellulare e mostra una cosa.

"Quando Journey è stato reso disponibile agli iscritti Playstation Plus, poche ore dopo alcuni giocatori hanno aperto una discussione nel forum del gioco chiamata "Thread di scuse di Journey".

Una lista di giocatori che ringraziano e chiedono scusa ad altri giocatori anonimi, di cui non sanno niente, ma che hanno incontrato attraverso il gioco.

All'interno possiamo leggere frasi come:

  • "Ti sono così grato per il tuo aiuto ieri notte. Sei stato molto paziente quando le mie abilità di volo non erano buone".
  • "Sono molto dispiaciuto per essermi nascosto dietro una roccia quando quella cosa è apparsa, ho avuto un attacco di panico. Mi ha preso completamente di sorpresa".
  • "Ai miei amici della quinta zona. Non avrei mai voluto abbandonarvi. O solo sbagliato di molto un salto. Mi mancate. E mi dispiace".
  • "Per chiunque abbia giocato con me: grazie per non avermi lasciato mai".

E la lista continua a lungo.

"Mi fa venire la pelle d'oca", dice Chen.

L'incontro con la Divinità

"C'è stato un momento, durante lo sviluppo di Journey, in cui mi sono odiato - Jenova Chen"

"C'è stato un momento, durante lo sviluppo di Journey, in cui mi sono odiato".

"Avevamo fatto un prototipo in cui i giocatori potevano aiutarsi per portare a termine dei compiti. Uno degli sviluppatori suggerì che poteva essere divertente introdurre un vento così forte che i giocatori sarebbero stati costretti a spingersi per proseguire. In quel momento non avevamo sviluppato un sistema di collisioni, quindi lo creammo per portare avanti questa idea. E sapete cosa successe? Che tutti i membri del team cominciarono a spingersi a vicenda nei precipizi.

La mancanza di regole morali nei videogame spinge alla ricerca dell'emozione più forte. Un po' come quando si gioca da bambini.

"Anche se sapevamo tutti che questo gioco si basava su messaggi positivi, su un senso di umanità, tutti volevano solo uccidersi tra di loro. Ci sono caduto anche io e quindi per un certo periodo di tempo sono stato molto triste e deluso dal team e da me stesso".

"Quindi mi incontrai con uno psicologo infantile e gli spiegai il mio problema. E lui semplicemente mi rispose: 'Oh, i tuoi giocatori stanno solo tornando bambini'".

"Appena nati i bambini non hanno regole morali. Non sanno ciò che è giusto o sbagliato. Quindi cercano l'azione che dà loro il feedback più forte".

"Se un bambino si mette a battere qualcosa sul tavolo, causando rumore, noi gli diciamo di fermarsi, giusto? Ecco, questo è un feedback forte. E lo psicologo mi disse che la stessa cosa accade quando un giocatore entra in un ambiente virtuale per la prima volta".

"Sono come bambini - disse - non conoscono le regole, quindi compiono azioni che danno dei feedback. Il miglior modo per fare sì che un bambino smetta di fare qualcosa che non ci piace è non dargli alcun feedback".

"Il fatto è che tutti cercano il massimo feedback. Se spingi qualcuno in un pozzo pieno di spine il feedback è enorme, perché la persona muore e l'atto viene descritto con un'animazione, un suono e una tensione sociale. Queste cose si combinano tra di loro e rendono lo spingere qualcuno in un pozzo molto più soddisfacente che spingerlo contro il vento".

"Quindi, quando abbiamo rimosso le collisioni, i giocatori hanno cercato un altro modo per ottenere un feedback, e improvvisamente aiutarsi tra di loro era l'azione che ne dava di più. È stato affascinante.

Il viaggio dell'eroe

"Il videogioco è un medium in grado di combinare tutte le sfaccettature dei film con il design interattivo - Jenova Chen"

Ci piace concludere togliendoci un ultimo dubbio, ossia il paragone che Chen fa tra film e videogiochi, un parallelismo banale e impopolare per un designer del suo calibro. Pensa forse che siano molto vicini? Forse ci sono soggetti o emozioni che i videogiochi non sono in grado di riprodurre o creare nello spettatore?

"No. Il videogioco è un medium in grado di combinare tutte le sfaccettature dei film con il design interattivo - dice fermamente - I giochi dovrebbero essere più adatti dei film per ogni scopo od obiettivo. Ma il fatto è che i videogiochi sono ancora un settore secondario dell'industria cinematografica. È tragico. Io vedo così tanto potenziale. Sento che possiamo fare molto di più".

"È per questo motivo che cerchiamo di inviare un messaggio ricco di contenuti emotivi. Se tutto il settore si concentra sul divertimento e sulle scariche di adrenalina... Beh, io cercherò la pace o l'amore. In questo modo riusciremo a espandere la percezione di ciò che i giochi possono essere e ciò che possono ottenere. È per questo motivo che creo giochi. È per questo motivo che sto compiendo questo viaggio".

Traduzione a cura di Lorenzo Fantoni.

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Journey

PS4, PS3, PC

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Simon Parkin

Contributor

Simon Parkin is an award-winning writer and journalist from England, a regular contributor to The New Yorker, The Guardian and a variety of other publications.
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