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Videogiochi e mass media, un rapporto complicato

Perché dei videogiochi si parla (ancora troppo spesso) male e a sproposito.

Uno dei miei mantra preferiti, avendo da poco compiuto quarant'anni, è "la mia generazione è stata privilegiata perché ha visto nascere i videogame". Voglio dire, mi son perso gli anni d'oro del rock, della radio, del cinema e della letteratura, almeno i videogame posso dire di averli visti nascere, crescere ed evolvere.

Una cosa che però è cambiata poco (o almeno non quanto sperassi) nel corso degli ultimi trent'anni è la superficialità con la quale i videogiochi vengono trattati dai mass media "tradizionali": televisione, quotidiani, magazine, periodici, a volte persino internet, anche se in quest'ultimo caso può sembrare un paradosso... ma è così.

Ricordo che qualche anno fa, un importante settimanale italiano di politica, economia e, uhm, "cultura" (che peraltro durante i '90 era noto per piazzare in copertina sempre donne nude o mezze nude manco fosse Playboy...) sbatté in copertina un gioco chiamato Rules of Rose, diffondendo contestualmente il panico tra "quelli che benpensano" con un articolo talmente pregno di falsità e castronerie da far perdere la pazienza anche ad un monaco zen al più alto grado di imperturbabilità.

Ah, il buon vecchio e orribile Carmageddon, quante polemiche inutili... tutta pubblicità gratuita!

"Poi la settimana scorsa leggo un editoriale vergato da un "celebre" giornalista e mi casca tutto il cascabile"

Rammento perfettamente che alla pubblicazione dell'articolo seguirono speciali in televisione, dibattiti (ai quali ovviamente non venne mai chiamato nessun esponente dell'industry videoludica ma solo quei presenzialisti e "prezzemoline" che vanno ancora di moda nelle trasmissioni del pomeriggio sulle reti generaliste), dichiarazioni, accuse, comunicati stampa e un'invasione di cavallette. Orrore e raccapriccio, sacrifici umani, cani e gatti che vivono insieme!

Ora, che agli inizi della sua storia, negli anni '80, si potesse additare il videogioco come causa di tutti i mali della Terra, poteva anche starci: medium nuovo, sconosciuto ai più, capace di passare dalle stalle alle stelle in un attimo e nello stesso attimo fare il percorso inverso (la grande crisi dell'83). I videogames erano Satana, come i cartoni animati giapponesi dieci prima, il rock n'roll vent'anni prima ed il cinema agli inizi del Novecento. Certo però che da appassionato militante mi sarei aspettato che, col passare del tempo, crescesse e maturasse anche una maggiore consapevolezza nei confronti del medium e invece... pessimismo e fastidio.

Poi la settimana scorsa leggo un editoriale vergato da un "celebre" giornalista, che scrive su un blog di una nota rivista femminile allegata ad un ancora più diffuso quotidiano, e mi casca tutto il cascabile. Ho disseminato sufficienti indizi per mettervi in grado di capire di chi sto parlando, ma se cercate su Google l'espressione "i nostri figli rapiti dai marzianetti" beccate subito il pezzo incriminato. È un esempio, ma se ne potrebbero fare mille altri. Alcune associazioni di idee (nei videogiochi si spara ---> chi li gioca è un potenziale violento ---> se nel Paese X c'è una strage chi la compie è sicuramente un videogiocatore) sono oramai così radicate in certi ambienti che difficilmente si potranno cancellare. Titoli come GTA, Call of Duty e chi più ne ha più ne metta, sono e saranno sempre nell'occhio del ciclone (cosa che ai rispettivi produttori tutto sommato conviene anche).

Già ai tempi dell'Atari 2600 qualcuno ciurlava nel manico. Ho detto ciurlava.

Negli ultimi tempi i videogiochi sono diventati un "serious business" non solo per chi li fa e ci gioca, ma anche per chi ne parla. Approfondimenti di varia natura, esegesi dei titoli più complessi, in deep sul mercato e sulle sue tendenze sono oramai all'ordine del giorno e i siti super specializzati nascono come funghi (basti pensare ai casi di The Verge o Polygon, giusto per citare alcuni dei più recenti).

"Eppure, ogni tanto, salta fuori ancora l'editoriale ignorante, inteso nel senso letterale del termine"

Persino il retrogaming offre feconde possibilità di analisi che vengono colte da giornalisti, esperti del settore o semplici appassionati ultracompetenti (i casi Pix n' love e Retrogamer sono di epifanica chiarezza sotto questo aspetto). Sono sorte associazioni di categoria che possono intervenire come "voce ufficiale" del medium. Musei ed università ospitano i videogiochi e ne fanno oggetto di corsi di specializzazione.

Eppure, ogni tanto, salta fuori ancora l'editoriale ignorante, inteso nel senso letterale del termine. L'articolo sensazionalistico, l'accusa demenziale di corruzione della morale/giovani/etc, il presunto nesso tra games e bullismo, il link mentale tra il fatto che uno giochi ai videogame e poi gli vada in pappa il cervello e compia qualche strage o atto folle ed imprevedibile. Fino ad arrivare ai medioevalissimi roghi di cui anche Eurogamer ha dato notizia qualche settimana fa (ma vabbé, lì ci si mettono in mezzo politici e "fondamentalisti", quindi non vale nemmeno la prenderli a esempio). Il sonno della ragione genera mostri, diceva (e dipingeva) Goya.

Qualche anno fa ebbi la fortuna di fare una lunga ed interessante chiacchierata con Riccardo Albini, un uomo che tutti noi "player" dovremmo amare incondizionatamente, visto che fu il primo a realizzare una rivista che parlasse di videogame (Video Giochi, il cui primo numero uscì nel dicembre del 1982) e che negli anni successivi deliziò le nostre pupille con testate storiche e leggendarie quali Zzap! K e Game Power. Una delle frasi che rimasero impresse nella mia memoria fu quella relativa alla "formazione" dei giornalisti.

I marzianetti rapiranno i vostri figli?

Albini mi disse "ai tempi era più semplice trovare giocatori e farli diventare giornalisti che il contrario". Beh, forse quella massima vale ancora oggi. Da un lato appare evidente che l'agognato "ricambio generazionale" non c'è stato o c'è stato solo in minima parte. Dall'altro è evidente che in Italia le logiche che portano la persona X ad entrare in una redazione Y troppo spesso hanno poco a che fare con merito e competenza e più frequentemente con... beh, diciamo altre "argomentazioni".

"Non tutti i redattori storici delle testate che abbiamo letto per quasi trent'anni sono riusciti ad entrare nelle redazioni dei grandi quotidiani"

Non tutti i redattori storici delle testate che abbiamo letto per quasi trent'anni sono riusciti ad entrare nelle redazioni dei grandi quotidiani o in televisione (e molti nemmeno c' hanno provato o magari ci sono riusciti ma scrivono d'altro e non di games) e quelli inesperti non hanno propensione alla ricerca delle fonti o ad approfondire un argomento che spesso non conoscono affatto. Infine, alla faccia della rivoluzione del web, oggi, in Italia, la carta stampata ufficiale è ancora il punto di riferimento per un pubblico di utenti vecchi (anagraficamente) e pigri (mentalmente). Avete notato che le rassegne stampa, quelle che si vedono a notte fonda, si occupano solo di quotidiani e riviste e mai, chessò, di siti e/o blog specializzati anche quando affrontano un determinato argomento?

E quindi? Come se ne esce? Si aspetta. Un giorno, posto esistano ancora, i quotidiani, le televisioni e i magazine saranno forse popolati da persone nate sotto il segno dei games, che non definiranno "marzianetti" gli alieni di Space Invaders (che peraltro è un "gioco da museo" in senso letterale, visto che è onusto di premi e riconoscimenti ufficiali, almeno all'estero) e avremo finalmente un'informazione migliore, più puntuale, precisa e attenta. Forse.

Andrea Chirichelli è co-founder ed editor di Players Magazine, un progetto editoriale che mira a discutere di intrattenimento in maniera matura e indipendente, coinvolgendo un pubblico smaliziato e vagamente geek.

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A proposito dell'autore
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Andrea Chirichelli

Contributor

Nasce circa 40 anni fa in una domenica buia e tempestosa. Negli ultimi anni ha offerto il suo discutibile talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic. Odia apparire in foto.
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