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Come Tomb Raider si è smarrito nelle terre selvagge - articolo

Lara Craft.

Avete mai sentito parlare dell'Eremita di North Pond? È una storia meravigliosa, strana e malinconica. Per 27 anni un uomo, tale Christopher Knight, ha vissuto nella natura del Maine, dormendo in un magnifico campo nascosto tra i massi e sgattaiolando via dal proprio rifugio per rubare provviste dalle case nelle vicinanze. Le persone sospettavano che si trovasse in quel luogo, in un certo senso deve essere stato un po' come essere perseguitati da un fantasma solitario. C'erano delle effrazioni nelle case e dolci, libri e occasionalmente un Game Boy vennero rubati. Alcune persone iniziarono anche a lasciare delle provviste per lui, appese in una borsa legata alla maniglia della porta sul retro.

E poi un bel giorno del 2013 fu catturato e gli venne chiesto da quanto tempo si trovasse in quel luogo e facesse quelle cose. La sua risposta fu una domanda: quanto tempo è passato dal disastro di Chernobyl? L'uomo iniziò infatti a vivere nei boschi appena dopo quel tragico evento.

Quanto mi piacerebbe giocare a un videogioco sull'Eremita di North Pond! Un gioco che sappia catturare il malinconico splendore dei boschi del New England con gli inverni senza pietà e le esplosioni di colori autunnali. Un gioco che permetta di imparare a conoscere un luogo, a farlo tuo ma continuando allo stesso tempo a essere consapevole che la tua esistenza, la vita che hai scelto circondato da persone senza viverci insieme, è labile e degna di essere preservata. Dubito che avrò mai la possibilità di giocare a qualcosa del genere ma la storia dell'Eremita di North Pond si insinua spesso nei meandri della mia mente mentre mi barcameno all'interno di giochi survival come Long Dark e ora, a Rise of the Tomb Raider.

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In un certo senso è la ragione per cui è scoccata la scintilla con questa serie. Ho sempre amato Tomb Raider e da quando Crystal Dynamics ha preso le redini con Legend ho continuato ad avere la sensazione che uno dei più grandi nomi dell'industria fosse in mani sicure. Legend è un gioco meraviglioso, come lo sono Anniversary e Underworld. Si tratta di giochi che riescono a catturare il senso di solitaria meraviglia dei titoli originali sapendo comunque smussarne un po' le imperfezioni. Per certi versi sono i giochi originali per come li ricordi: la sensazione di frustrazione e l'occasionale goffaggine rimosse lasciando solo l'eleganza e il senso di stupore che derivano dall'esplorare livelli che danno l'impressione di essere intricati e coerenti, esattamente come se stessi vagando all'interno di un'antica macchina.

Il reboot, invece, si è rivelato molto più difficile da comprendere. Andai a visitare Crystal Dynamics mentre era ancora in sviluppo per scrivere un articolo per una rivista e inizialmente rimasi colpito dalla pura bellezza di ciò che lo studio stava realizzando. Quella prima demo in cui Lara dondolava appesa alle travi di una caverna di qualche strano culto, alle prese con un piccolo puzzle legato all'illuminazione per poi fuggire mentre la caverna crollava nel bel mezzo di un attacco di un gruppo di lupi? Dava la sensazione di essere troppo intensa e distinta per essere vera. Le rocce luccicavano a causa dell'acqua che gocciolava su di esse mentre fuliggine e scintille si alzavano dalla torcia di Lara. E nel mentre proprio Lara faceva cose improbabilmente fantastiche. Non qualcosa di imponente ma le piccole cose: allungava le braccia verso un muro per mantenere l'equilibrio, e mentre avanzava attraverso un piccolo fiumiciattolo appoggiava una mano sul soffitto per mantenere un contatto con la superficie asciutta.

Sulla cura e l'abilità alla base di quest'ultimo gioco non c'erano dubbi ma c'erano anche altri elementi che non davano propriamente l'impressione di essere tipici di Tomb Raider. Lara Croft è una strana creatura: è elegante, distaccata e imperturbabile, eppure attraverso il fascino di quel sistema di controllo (fatto di salti laterali, backflip, il fare una verticale se si preme il pulsante giusto, e il suo calarsi una gamba dopo l'altra) c'è un'intensa sensazione di connessione tra il giocatore e il personaggio. Il grid system dei giochi originali lo ha reso esplicito: una volta capiti i limiti dei movimenti di Lara all'interno di quella ambientazione rigida, sarebbe stato possibile fare sostanzialmente ciò che si voleva.

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Quella sensazione di connessione è stata preservata all'interno dell'era Legends ma all'improvviso all'interno del reboot si intromise una piccola distanza. Lara iniziò a fare altre cose al nostro posto: si accucciava automaticamente muovendosi attraverso le aree più basse, scattava in copertura, effettuava tutta una serie di movimenti verso un appiglio o per mantenere l'equilibrio. Indubbiamente si tratta di piccole cose ma anche i salti diventarono un po' più sicuri: esattamente come succedeva per Nathan Drake c'era la sensazione di essere attirati più verso gli appigli nei casi di essere alle prese con dei salti che altrimenti non sarebbero stati realizzabili. La trama intanto ha frainteso la crudezza e la durezza per lo sviluppo di un personaggio. I giocatori come me erano alla ricerca dell'avventura ed ecco tutta quella sofferenza, l'essere trafitti da degli spuntoni e l'essere sempre messi al tappeto. Mentre Lara diventava sempre più importante e centrale si faceva spazio la strana sensazione che giocatore e personaggio si stessero lentamente separando.

Qualche giorno fa ho finalmente terminato il reboot di Tomb Raider. Penso di averlo apprezzato, anche se giocando a sprazzi mi ci è voluto più di un anno per completarlo, disinstallandolo e installandolo più volte. Per questo motivo e per quanto sia incredibilmente bello da vedere nonostante la durezza del mondo che tratteggia, ha mantenuto per me la sensazione di essere uno spettacolo, una sorta di tech demo dall'inizio alla fine. Certo è diventata un'abitudine ma non ho mai perso la mia personalissima ammirazione per il modo in cui la telecamera ballonzola e si piega alle spalle di Lara mentre si arrampica su questa o su quell'altra struttura. E per quanto la rinascita di Lara sia molto più uno shooter di quanto mi aspettassi, ho comunque apprezzato queste fasi: il fucile a pompa ha un rinculo ottimo e netto, il fucile d'assalto che scatta è difficile da domare e quell'arco... il trattenere a lungo la sua corda, l'obiettivo che entra ed esce dal nostro campo visivo e poi il rilascio e l'headshot perfetto.

La mia sensazione durante tutto il tempo in cui giocavo era che Tomb Raider stesse cambiando ma che fosse difficile capire esattamente cosa stesse diventando. In certi momenti c'era un genuino tentativo di unire il vecchio Tomb Raider con quello del reboot. Momenti in cui Lara si dondolava sopra un abisso, il mondo andava a rallentatore e all'ultimo la protagonista piantava la propria piccozza all'interno della roccia: un classico momento da eroina, forse addirittura un momento significativo e determinante? In quell'istante potevi vedere come questa Lara sarebbe diventata l'altra, quella del passato.

Allo stesso modo mentre si esplorava una zona costiera verso la fine del gioco, le rocce più antiche lasciavano spazio a qualcosa di troppo arrotondato e simile al cemento: erano delle installazioni militari della Seconda guerra Mondiale, dimenticate dopo la battaglia per il dominio del Pacifico. Il miscuglio di due elementi, sia vecchi che misteriosi, che si sfregavano l'uno contro l'altro sapeva molto di Tomb Raider e per un breve momento non ero circondato da nemici quasi identici che si muovevano verso le coperture: mi stavo aggrappando, stavo saltando da un appiglio all'altro. Dietro alla porta di un vecchio capanno ho anche scovato una delle tombe opzionali del gioco. Questo è sicuramente un segno del guazzabuglio in cui si trovò Crystal Dynamics: una visione forte di una rappresentazione di Tomb Raider incentrata sul personaggio ma nel caso in cui non fossi soddisfatto da questa impostazione c'era la possibilità di avere un po' di vecchio Tomb Raider.

Per me il reboot rimane in generale un pasticcio: un gioco realizzato con cura, molto bello, che vuole essere coraggioso ma che vuole anche compiacere un po' tutti e che come risultato non è totalmente un successo in nessun ambito. La scorsa settimana ho provato Rise of the Tomb Raider aspettandomi sostanzialmente la stessa cosa e il sequel si mantiene, in effetti, molto vicino al modello base. Tuttavia, c'è del movimento sotto la superficie. Vedo sprazzi di un futuro in cui la nuova Lara dà la sensazione di essere coerente ed esaltante.

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Il fatto che la maggior parte di questi sprazzi arrivino nella prima metà del gioco è significativo. Rise of the Tomb Raider perde molto del proprio fascino a circa un terzo del gioco, dal momento in cui ottieni il tuo primo fucile d'assalto. Improvvisamente le sparatorie, tra cui anche una gigantesca battaglia verso la fine del gioco, diventano disponibili. Sicuramente il fatto che non appena impugnata una pistola iniziai a notare quanti nemici avessero la stessa faccia e spuntassero dalle porte scambiandosi le stesse battute con i propri colleghi non è una coincidenza.

Ma prima di tutto ciò e in qualche fugace momento successivo, il gioco sembra genuinamente trovare il proprio ritmo. Ed è un ritmo che l'Eremita di North Pond potrebbe riconoscere. Nelle prime fasi vengo gettato all'interno di un meraviglioso paesaggio invernale, una vecchia base Sovietica sulle vette innevate. Tutto intorno ci sono dei capanni sbatacchiati dal vento e una parete rocciosa molto scoscesa che ho imparato a scalare grazie a un'abilità appena sbloccata. Questo paesaggio non è un percorso lineare: è un'arena complessa con parecchi sentieri che la attraversano, molti dei quali possono essere creati da me dando vita a delle nuove zipline con delle frecce o sfondando delle porte.

Un fatto cruciale è che sono sostanzialmente da solo. Qualche lupo pattuglia la distesa più in basso ma il mio obiettivo non è quello di cercare qualcuno e ucciderlo ma invece quello di distruggere cinque ripetitori radio sparsi per la zona. Per circa trenta minuti di felicità faccio semplicemente questo. Scorrazzo in giro, esploro vicoli ciechi, capisco verso dove devo dirigermi o dove penso di essere diretto e mi affido alla sorte per il resto.

E nel frattempo esamino il paesaggio, spezzo rami e rubo nidi d'uccello per il materiale necessario per realizzare le frecce, raccolgo funghi per delle munizioni velenose, colleziono vari pezzi per creare delle bende e mi imbatto in quella che è una sorta di moneta in game, qualcosa molto più divertente da raccogliere che da usare. In realtà tutte le cose che ho elencato sono molto più divertenti da raccogliere. All'interno di Rise of the Tomb Raider gli upgrade non sono particolarmente affascinanti e la progressione del personaggio è ampiamente dimenticabile. Ma si tratta di elementi ottimi come struttura: il trovarsi nella natura, nel mondo stesso, è rinforzato dal raccogliere oggetti mentre ci si sposta, il raccogliere registrazioni audio che non ascolterò mai, il riempire una mappa che non guarderò mai. Fa tutto parte dello stile di vita alla Eremita di North Pond.

E tutto questo si manifesta esplicitamente quando ci si rende conto che una delle idee apparentemente più trascurabili del reboot può in realtà rivelarsi una delle migliori. Sto parlando dei Campi Base, queste piccole aree di ristoro sparse per la mappa che permettono di mettere in pausa il gioco e occuparsi di migliorare le armi, spendere gli skill point e effettuare dei viaggi veloci attraverso il mondo di gioco (permettono anche di ripercorrere la trama nel caso in cui non si fosse prestata sufficiente attenzione).

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Non sono esattamente dei punti di salvataggio ma un'intelligente rivisitazione del concetto. Nei nuovi Tomb Raider c'è un salvataggio automatico dopo quasi ogni evento di discreta rilevanza. Non c'è alcun bisogno dei Campi Base come metodo per gestire i progressi ma danno la sensazione di svolgere uno degli altri compiti dei punti di salvataggio: un momento di pausa e di riflessione sul viaggio fatto fino a quel momento.

Considerati in questo modo mi ricordano con decisione qualcosa che facevo nei vecchi Tomb Raider e di cui mi ero completamente scordato. Prendiamo per esempio Tomb Raider 2, che penso avesse un sistema di salvataggi rapidi: rimanevo bloccato nel mezzo di un livello gigantesco con la preoccupazione che se avessi smesso di giocare in quel momento non sarei più stato in grado di ritrovare la strada e di ritrovare il modo per tornare all'interno dell'avventura.

Per questo motivo, mentre avanzavo nel gioco, sceglievo una zona lontana che avesse un buon punto d'osservazione o che desse la sensazione di progressione e salvavo in quel punto trasformandolo nel mio piccolo personale campo base prima di uscire dal gioco. Questo piccolo elemento da gioco di ruolo mi fa sentire leggermente sciocco al giorno d'oggi ma per me colma una distanza tra i vecchi e i nuovi Tomb Raider. Con i primi apparentemente fluidi e pratici ma in realtà burberi e irascibili (dei veri e propri giochi splendidamente duri e spinosi) e i secondi ricoperti di una patina di sofferenza ma in realtà leggermente troppo fluidi e accomodanti in certi casi.

Cosa ci aspetta per il futuro? C'è un nuovo Tomb Raider in sviluppo e sarà affascinante vedere come troverà il proprio equilibrio tra tutte le forze attualmente in gioco nel mondo di Lara Croft: come gli elementi survival si sposeranno allo shooting basato sulle coperture (con l'arco Tomb Raider diventa un'esperienza stealth sorprendentemente divertente e come per Crysis spero che in questo caso lasceranno perdere le armi da fuoco), e come le virtù del vecchio Tomb Raider, la malinconica solitudine e i puzzle giganteschi e complessi troveranno spazio all'interno di tutte le continue chiacchiere dei nemici e di una UI incredibilmente fastidiosa. In ogni caso ho delle speranze e non vedo l'ora di sedermi al primo campo base del nuovo gioco e riflettere su ciò che mi aspetta.