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Activision non vuole fare politica. Allora perché continua a farla? - editoriale

Bobby Kotick parla chiaro. Ma dalla sessualizzazione di Overwatch alle guerre di CoD, Activision Blizzard sembra non fare altro.

Fare politica o non fare politica? Questo è il dilemma. L'amministratore delegato di Activision Blizzard, Bobby Kotick, ha la sua risposta: no alla politica nei videogiochi. "Non siamo operatori municipali", ha detto il dirigente durante una recente intervista. "Penso che la mia responsabilità sia soddisfare il nostro pubblico e i nostri soci, i nostri dipendenti e i nostri azionisti". Insomma, la politica non fa parte del mezzo videoludico secondo la visione di Activision Blizzard. Allora, signor Kotick, ci spieghi: perché la sua società continua a farla?

Sia dalla parte Activision sia da quella Blizzard, i giochi sono diventati uno strumento politico, eccome. Perché per "fare politica" non è necessario che il protagonista di un videogioco si metta a dire "questo è giusto e questo è sbagliato"; non deve per forza essere esplicita.

Activision Blizzard è lo stesso produttore che ha sessualizzato Overwatch, specificando se un personaggio è omosessuale oppure transgender, per esempio. La campagna di Call of Duty: Modern Warfare è una delle più politiche dell'intera storia della serie. Non vengono mai fatti riferimenti espliciti e lo stesso Paese protagonista porta un nome fittizio, ma chiunque può giocare alla storia principale e interpretare facilmente le varie tematiche, come la questione curda in Siria. Senza dimenticare come Infinity Ward, lo sviluppatore di Call of Duty Modern Warfare, abbia plasmato a suo piacimento l'evento dell'Autostrada della Morte, attribuendo ai russi responsabilità che storicamente non hanno.

Bobby Kotick è CEO di Activision Blizzard.

Quindi dare una visione americanocentrica del mondo non è fare politica, mentre se un giocatore di Hearthstone supporta le proteste di Hong Kong (il noto caso di "blitzchung") dopo un torneo, va bandito? Qual è, secondo Activision Blizzard e nello specifico Kotick, il metro di misura per definire un gioco politico oppure no? Non fa politica se asseconda lo stile americano e invece è politico - e quindi è meglio evitarlo - se tocca corde più difficili?

La verità è che i videogiochi sono politica. Lo sono, magari anche involontariamente, perché la politica è ovunque. Possiamo mettere la testa sotto la sabbia ma ciò non cambierebbe il fatto che, per esempio, qualsiasi gioco di guerra è una finestra sulle tante guerre civili nel nostro mondo. Se Activision Blizzard decide di inscenare in un certo modo la campagna di Call of Duty Modern Warfare, allora sta facendo politica: sta mettendo gli americani dalla parte dei buoni e i russi sulla barricata opposta. Sta dipingendo un preciso scenario del mondo, uno che fa comodo a un tipo di utenza. Si sta schierando.

Con le sue dichiarazioni Kotick sta naturalmente interpretando il suo ruolo: è l'amministratore delegato di una società multinazionale quotata in borsa e quindi il suo obiettivo è fare felici tutti. Si tratta, però, di un atteggiamento estremamente anacronistico, visto ciò che fa la sua compagnia. È anacronistico, soprattutto, considerato che l'essere una società quotata in borsa non è più una giustificazione.

La campagna di Call of Duty Modern Warfare è una delle più politiche dell'intera serie.

Perché se guardiamo al mondo cinematografico (a cui i videogiochi tanto proclamano di volersi ispirare) sono tanti i produttori che lasciano ampio spazio ai registi e agli attori di interpretare ruoli difficili e sicuramente "politici", almeno nella definizione che vuole darne Kotick. È diventata ormai una caratteristica intrinseca del cinema: fa (anche) politica e va bene così, nessuno ha mai urlato all'oltraggio.

Soprattutto, il vizio dei dirigenti dei videogiochi è quello di voler controllare il loro prodotto quando invece ciò non solo è letteralmente impossibile ma non è nemmeno corretto. Una volta che un titolo viene esperito dal giocatore, muta. All'interno del videogiocatore, i tratti del videogame vengono plasmati secondo sensibilità diverse.

Death Stranding ne è un esempio lampante: può raccontare tante storie perché ognuno ha una sua sensibilità e una sua storia personale. Così come i libri, i videogiochi sono esperienze estremamente personali e di conseguenza ognuno può reagire in modo diverso e trarre spunti diversi.

Blizzard ha tenuto a precisare che Soldato 76 è gay. Ma ha punito un giocatore per aver dato il proprio sostegno a Hong Kong.

Pensare allora che un videogioco non possa (o addirittura non debba) essere usato come punto di partenza di un ampio dibattito è fondamentalmente sbagliato. Proprio come la musica, il cinema o la letteratura, il videogioco può diventare un pretesto per una discussione molto approfondita sulla guerra, sull'amore o sulla storia dell'umanità. Per cui, signor Kotick, se non vuole che i videogiochi di Activision Blizzard facciano politica, allora smetta di farla.

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A proposito dell'autore
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Massimiliano Di Marco

Contributor

Aspetta la pensione per recuperare la libreria di giochi di Steam. Critica qualsiasi cosa si muova, soprattutto se videoludica, e gode alla vista di Super Mario e Batman.

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