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Videogiochi e minorenni: in Italia la legge sta per cambiare? - editoriale

Alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati s'è parlato di videogiochi, ma i risultati sono controversi.

Lo scorso giovedì 1 ottobre, presso la Commissione Cultura della Camera dei Deputati, si è tenuto un incontro intitolato "A proposito di videogiochi - Riflessioni, proposte e osservazioni sul mondo dei videogame in Italia". Si tratta di una notizia importante e intrinsecamente positiva per il nostro settore, in un Paese che nel corso degli ultimi 20 anni ha colpevolmente e sistematicamente ignorato il tema dell'intrattenimento elettronico, se non per renderlo oggetto di furiose campagne denigratorie in concomitanza con vari e variamente correlati eventi di cronaca.

Al di là della novità costituita dal fatto in sé, c'è molto da dire su quelli che sono stati i contenuti dell'appuntamento (invito gli interessati a visionarne l'intera registrazione video presso il sito della Camera, sotto la sezione "eventi"). Nelle circa 3 ore di confronto si sono infatti dette molte cose interessanti e anche potenzialmente controverse, non solo per gli appassionati ma per l'intero mercato italiano.

L'incontro è l'ultimo sviluppo del "caso" sollevato all'inizio di quest'anno dalla deputata di Scelta Civica Ilaria Capua (all'epoca vicepresidente della Commissione Cultura), la quale attraverso un post intitolato con sottigliezza "Videogiochi, un problema di tutti" denunciò l'attuale situazione del mercato dei videogame e, in particolare, la possibilità da parte dei minori di entrare in possesso di titoli "per adulti", segnalando il tema anche all'attenzione del Presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Se dunque si è riusciti a parlare di videogiochi in un contesto istituzionale non è per meglio capire e sfruttare, a livello di sistema Paese, un fenomeno economico e culturale tra i più rilevanti degli ultimi 30 anni, ma di nuovo per discutere dei potenziali "rischi" ad esso correlati.

Registrato sommessamente questo dato di fatto, possiamo consolarci sapendo che, almeno, all'evento erano presenti numerosi protagonisti della games industry ed esperti "veri" del settore, come ad esempio Andrea Persegati dell'AESVI (Associazione Editori Software Videoludico Italiana), Massimo Guarini (CEO di Ovosonico), rappresentanti sia di Sony che di Microsoft, Simon Little (Managing Director di PEGI) e anche alcuni importanti esponenti del mondo giornalistico, scientifico e accademico.

La games industry nel 2015 è un affare da 90 miliardi di dollari. La Germania vi partecipa per oltre 2,5 miliardi, l'Italia per soli 20 milioni. Se c'è un 'problema videogiochi' in Italia, si tratta di questo.

La prima parte dell'incontro è stata dedicata proprio a dare voce ai rappresentanti della games industry italiana, che hanno detto cose molto interessanti, tra l'analisi di fatti già noti e la diffusione di dati spesso ignorati dal grande pubblico. La prima notizia è che il mercato dei videogiochi in Italia è enorme ed in costante crescita: il nostro paese conta circa 29 milioni di gamer (includendo, ovviamente, le piattaforme "casual"), quindi a giocare è un italiano su due, per un giro d'affari che tocca i 900 milioni di euro l'anno.

Interessante notare come il pubblico femminile ammonti a circa metà dell'intero mercato, mentre la prima fascia di età per numero di giocatori (24%) è quella dei 35-44 anni. Due dati che, se ce ne fosse ancora bisogno, stravolgono completamente la vecchia visione di mercato dei videogiochi e smentiscono lo stereotipo del gamer visto unicamente come maschio adolescente.

Un altro dato molto significativo, e del tutto impietoso per l'Italia, è che dei circa 90 miliardi di dollari che la games industry mondiale produce annualmente, solo 20 milioni sono generati da sviluppatori e publisher italiani. Considerando che il consumo interno si aggira sui 900 milioni, è evidente che la "bilancia commerciale" italiana in questo specifico settore è sbilanciata di circa 45 volte verso le importazioni: un dato che grida vendetta per un paese storicamente collegato alla produzione di materiale culturale e che, da solo, dovrebbe spingere le istituzioni a interrogarsi sul perché di questa occasione di sviluppo clamorosamente mancata.

Gli sviluppatori presenti all'evento, da parte loro, non hanno mancato di dare qualche suggerimento, per altro di buon senso e già abbondantemente messo in atto in altre parti del mondo. Quello degli sgravi fiscali per le aziende operanti nel settore è l'esempio più lampante: il Canada li impiega da anni, con il risultato che la maggior parte dei più importanti publisher mondiali (Ubisoft, Electronic Arts, la defunta THQ e così via) hanno realizzato proprio lì alcune delle loro sedi più grandi ed importanti, stimolando un circolo virtuoso per l'IT locale e contribuendo all'economia dell'intero paese. A confronto, dei circa 100 sviluppatori di videogiochi ad oggi presenti in Italia, il 90% sopravvive grazie all'autofinanziamento, incapace di attirare i capitali degli investitori internazionali o di accedere agli inesistenti fondi governativi per lo sviluppo del settore.

A fronte di questi dati molto concreti e significativi, la seconda parte della discussione si è spostata più sul livello sociale e legislativo, concentrandosi sulle conseguenze che i videogiochi avrebbero sulla psicologia delle giovani menti e sulle azioni da intraprendere per arginare gli eventuali problemi ad esse connessi. Qui sono entrati in ballo gli esponenti del mondo scientifico ed accademico, nella fattispecie il dott. Luigi Gallimberti (psichiatra) e il professor Jeffrey Goldstein, dell'università di Utrecht. Dalle loro esposizioni, l'unico messaggio a trasparire con chiarezza è stato che la comunità degli studiosi non ha ancora una visione unitaria sugli effetti che il fenomeno del gaming ha (o non ha) a livello psicologico e sociale.

Il mercato dei videogiochi reale è molto diverso da come lo si dipinge solitamente: in Italia, circa il 50% del pubblico è di sesso femminile, e la prima fascia d'età è quella tra i 35 e i 44 anni.

Il Dott. Gallimberti ha sostenuto che un impiego eccessivo (più di un'ora al giorno) di videogiochi produrrebbe uno squilibrio nei meccanismi di produzione della dopamina e dunque nella capacità di recepire il piacere, portando a comportamenti pericolosi e stimolando potenzialmente l'insorgere di dipendenze (persino dalle sostanze psicotrope!); il prof. Goldstein invece ha detto sostanzialmente il contrario, ossia che non è dimostrata una correlazione diretta tra l'utilizzo di videogame e alterazioni comportamentali. Si tratta senza ombra di dubbio di un campo molto interessante e che in futuro andrà approfondito a livello scientifico ma il dato di fatto per ora è uno: sugli effetti dei videogiochi non esiste una conclusione universalmente riconosciuta come vera.

Apparentemente ignorando questo importante fatto, il successivo dibattito politico (che ha visto partecipare esponenti di tutti i maggiori partiti) si è concentrato principalmente sul "problema" videogiochi e in particolare sulla discussione della nuova proposta di legge che vorrebbe portare ad una diversa regolamentazione del mercato in Italia, introducendo il divieto di vendere determinati titoli ai minorenni, prospettando multe fino a 5.000 euro per i negozianti inadempienti e proponendo addirittura un nuovo sistema di rating specifico per l'Italia, basato su un doppio controllo incrociato tra PEGI e un organismo interno al nostro paese.

Delle numerose parti politiche presenti all'incontro, non tutte hanno appoggiato la legge proposta da Scelta Civica, ma chi non lo ha fatto è parso poco convinto e poco incisivo. Appassionata ma a tratti troppo naive, come forse era da attendersi, la difesa d'ufficio dei videogame effettuata dai due giovani rappresentanti del Movimento 5 Stelle (con tanto di citazioni di titoli come Call of Duty o Company of Heroes, a dimostrare una certa dimestichezza con il medium); più generico e frettoloso, a causa di un impegno personale, l'intervento del parlamentare PD, che ha paragonato l'industria dei videogiochi a quella del cinema ma non è sembrato poi conseguente nell'effettuare proposte concrete per sostenerla. Più pragmatica la visione del rappresentante di FI, che in chiusura di dibattito ha brevemente annunciato di essere al lavoro su una proposta alternativa che trasformi sì il PEGI in vincolo di legge, ma che parallelamente introduca anche misure fiscali volte a stimolare la crescita della games industry italiana.

Il fatto, però, resta: dopo le molte belle parole diplomaticamente spese dai politici per presentare l'industria dei videogiochi come "un'opportunità di sviluppo", l'unica proposta di legge messa concretamente all'ordine del giorno per ora è quella che riguarda la limitazione della libera vendita di alcuni videogame. In un momento in cui Obama dice ai giovani americani "non limitatevi a comprare un nuovo videogioco, createne uno!", adottare l'atteggiamento opposto significa imboccare la storia contromano.

20 anni dopo l'esplosione del 'caso' Mortal Kombat, la società è ancora allarmata dai presunti effetti nocivi dei videogiochi. La scienza, però, non è giunta a conclusioni definitive e univoche sul tema.

Prima di legiferare e imporre restrizioni delle libertà individuali e di mercato, la politica dovrebbe essere sicura di aver ben compreso il tema in oggetto. Cosa che evidentemente non può dirsi nel nostro caso: gli stessi relatori hanno più volte ammesso di essere affetti da "digital divide" e di non conoscere o capire, per una questione generazionale, il mondo dell'intrattenimento elettronico. A fronte di questa oggettiva ignoranza, prendersi la responsabilità di presentare un disegno di legge restrittivo appare azzardato, soprattutto quando non esiste neppure un largo consenso scientifico sulla presunta "pericolosità" del fenomeno che si va a limitare.

Il tutto, a maggior ragione, dal momento che il sistema PEGI già esiste e, se correttamente sfruttato, probabilmente basterebbe a limitare o forse arginare del tutto l'orrorifica diffusione dei videogiochi "violenti" tra i minori, che tanto preoccupa i rappresentanti delle nostre istituzioni. Dal momento che i videogiochi 18+ sono ancora largo appannaggio delle console da gioco domestiche e dei PC, sarebbe sufficiente che i genitori effettuassero un'adeguata opera di controllo delle attività che i propri figli svolgono nell'ambiente domestico, facendo riferimento (nel caso ve ne fosse il bisogno) alle accurate indicazioni PEGI stampate sulle confezioni di ogni gioco.

In assenza di una simile e cruciale funzione del contesto familiare, tentare di opporsi alla circolazione di determinati prodotti multimediali in fasce di pubblico inadeguate solo attraverso l'opera del legislatore è una battaglia persa in partenza, soprattutto nell'era di Internet e dei download digitali da sorgenti più o meno controllabili 'ufficialmente'.

Da questo punto di vista, è ironico constatare come la stessa denuncia dell'On. Capua sia nata dall'aneddoto personale di una madre che, per sua ammessa ignoranza, stava per comprare una copia di GTA V al proprio figlio minorenne, salvo accorgersi in extremis dell'inopportunità della cosa (il racconto è arricchito con la consueta descrizione approssimativa delle meccaniche del gioco).

La domanda è: dal momento che sulla scatola di GTA V campeggia a chiare lettere e su sfondo rosso il rating PEGI 18, di chi è la colpa se un genitore compra un simile gioco a suo figlio, e cosa si risolverebbe proibendone per legge la vendita ai minorenni? Va da sé che i genitori "distratti" di oggi non sarebbero toccati dalla restrizione di età, e dunque potrebbero continuare tranquillamente a comprare ai propri figli tutti i giochi "vietati" del mondo.

Di chi è la colpa se un genitore compra al proprio figlio minorenne un gioco chiaramente contrassegnato dall'indicazione PEGI 18? Si tratta di un problema legislativo o culturale?

La conclusione è una: il vero problema dei videogiochi in Italia è il livello di informazione e comunicazione, o piuttosto l'assenza di esse e l'ignoranza che ne deriva. Se nel 2015 un genitore può ancora dirsi "sorpreso" dall'esistenza di videogiochi con contenuti adulti, esponendosi al rischio di comprare improvvidamente ai propri figli materiale non adatto a loro, la colpa non è del vuoto legislativo ma di quello culturale.

Un problema questo che le istituzioni e i media tradizionali non hanno combattuto bensì alimentato nel corso degli anni, risultando sempre drasticamente incapaci di comprendere il fenomeno, sottovalutandone le dinamiche, sminuendone l'importanza e "svegliandosi" oggi, con abbondanti 20 anni di ritardo, per trovare nel Videogioco un medium diffuso capillarmente (sorpresa!, anche tra il pubblico adulto) e dall'enorme importanza culturale.

Un fenomeno ormai difficilissimo da inquadrare nelle infrastrutture normative di un paese che partecipa all'industria globale per meno di un quattrocentocinquantesimo (20 milioni su 90 miliardi) della sua entità, e che dunque dovrebbe cominciare a studiarlo partendo dall'ABC, piuttosto che lanciarsi nella spericolata iniziativa di sancirne nuovi e originali principi di regolamento.

In particolare, l'istituzione di una improbabile piattaforma di rating specifica per il nostro territorio rischierebbe di sortire l'unico effetto di distaccare ulteriormente l'Italia dal resto d'Europa e di soffocare sul nascere i primi, timidi vagiti della games industry italiana, che in condizioni ottimali potrebbe invece trasformarsi in uno dei più grossi segmenti di crescita dei prossimi decenni per il nostro Paese. Il tutto mentre gli adolescenti continuerebbero con ogni probabilità ad ottenere senza problemi i materiali a loro "vietati", attingendo alle diverse fonti sopra accennate.

Per riuscire davvero ad intervenire con efficacia ed equilibrio in un simile contesto, le istituzioni, la politica, i genitori e la società in generale dovrebbero essere in grado di comprendere a fondo le dinamiche del fenomeno videogiochi e di distinguerne le sfumature. Uno scenario, al momento, del tutto irrealistico nel contesto italiano, cronicamente afflitto da mali come la gerontocrazia e la refrattarietà a qualsiasi forma di modernità.

Vi lascio con un'immagine che da sola rappresenta alla perfezione l'inadeguatezza delle nostre istituzioni di fronte al tema tecnologico: durante l'evento, ospitato nell'altisonante sala della Commissione Cultura della Camera dei Deputati, gli ospiti internazionali avevano a disposizione un solo PC portatile "fornito dall'organizzazione" per la presentazione delle slide personali, e sono stati costretti ad alzarsi a turno per scambiarsi fantozzianamente di posto, scivolando con fatica e qualche imbarazzo negli angusti spazi dietro alle poltrone, per alternarsi al controllo del prezioso strumento.

Prima di parlare seriamente di futuro, l'Italia dovrebbe uscire dal Novecento. Ce la farà mai?

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Luca Signorini

Contributor

Luca gioca e scrive da quando ha scoperto le meraviglie del pollice opponibile. È giornalista ma soprattutto appassionato; non gli toccate Metroid, Stallone, i Black Sabbath e la carbonara e sarete suoi amici per sempre.
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