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L'anno sabbatico di Hideo Kojima - intervista

Cosa ha imparato Kojima dal suo tour degli studios mondiali?

Da quando il contratto di Hideo Kojima con Konami è terminato il 16 dicembre dello scorso anno, il popolare game designer ha abbracciato la sua nuova libertà con l'inconfondibile gusto di chi ha appena messo fine ad una relazione problematica. La sua pagina Twitter straripa di selfie con attori e registi di Hollywood in località esotiche, intermezzati da foto di cibi costosi in ristoranti alla moda. Dopo 25 anni di lavoro alla Konami, con tutte le ristrettezze e le regole da rispettare di una grossa corporation, Kojima ora si sta godendo la sua libertà.

Egli stesso descrive lo studio che ha fondato, Kojima Production, usando il termine “indie”, nonostante il supporto di Sony. "Sony mi ha dato carta bianca", mi dice Kojima con un ampio sorriso, dopo un incontro con i fan a Malmo, Svezia. "Con loro ho l'accordo perfetto."

La mascotte di Kojima Productions, appena svelata.

L'esatta natura delle relazioni tra Sony e Kojima Production è ancora ignota ma il fatto che il primo titolo dello studio sarà un'esclusiva PlayStation 4 indica che tra le due entità intercorre un supporto diretto, con un probabile finanziamento. "È un accordo che deriva da anni di collaborazione, durante i quali abbiamo costruito una fiducia reciproca", dice Kojima. "È normale nella nostra industria". I dettagli, però, restano scarsi. Kojima sostiene che il nuovo progetto sia un "tipo di gioco sconosciuto finora" ma tutto il resto è un segreto, incluso il luogo esatto in cui sono collocati i suoi studios a Tokyo o quante persone vi siano impiegate (per paura, forse, che la sua ex azienda possa tentare un reclutamento nei loro confronti).

Tutta questa segretezza contrasta con la trasparenza di Kojima riguardo i grandi piani per il futuro dell'azienda. Gli ultimi 6 mesi trascorsi “on the road” (per rifarsi, in parte, del giro d'onore che gli era stato negato subito dopo la sua uscita da Konami, a seguito della release di Metal Gear Solid 5) sono stati impiegati "cercando di trovare la giusta tecnologia per il mio nuovo gioco". Dopo tutto Kojima ha lasciato Konami senza avere niente in mano, a parte un gruppo di fedeli collaboratori. All'inizio, mi racconta, i suoi primissimi impiegati non avevano neppure i PC su cui lavorare: hanno dovuto creare le prime idee di design per il nuovo gioco scrivendole a mano su dei fogli di carta.

Oltre a portarlo ad apparire come speaker ad eventi come la Nordic Game Conference (collaborazioni che, probabilmente, hanno finanziato il suo viaggio), il tour di Kojima gli ha consentito di incontrarsi con i produttori di engine middleware, quel tipo di tecnologia prêt-à-porter che può consentire ad una startup di ottenere rapidamente dei risultati. "Stiamo cercando di capire quale dei middleware attualmente sul mercato si adatti meglio al tipo di gioco che stiamo facendo", dice. "Devo anche prendere in considerazione lo stile grafico che desideriamo ottenere. Ogni motore ha il suo stile particolare, quindi dovremo trovarne uno che si adatti a noi anche dal punto di vista estetico."

Kojima ha visitato anche innumerevoli studi di sviluppo, per scoprire nuove idee e pratiche lavorative da assimilare (durante la sua settimana in Svezia, per esempio, ha visitato Mojang, DICE e Massive Entertainment). Kojima Productions è una tabula rasa. "So che voglio uno studio molto intimo", dice Kojima. "La cosa che più si avvicina alla mia idea è Media Molecule".

Kojima con Guillermo del Toro e un pupazzo di Kung-Fu Panda (notare la somiglianza tra questi ultimi due).

"La tipica azienda giapponese è una specie di esercito, con una gerarchia ferrea, ordini che arrivano dall'alto. Media Molecule è tutta un'altra cosa. Innanzi tutto ha molte impiegate donne. È una strana sensazione! Ma al tempo stesso l'atmosfera è quella di una famiglia. È questo che voglio per la mia azienda." Un'altra cosa che Kojima ha notato, durante i suoi viaggi, è la centralità di una zona cucina in molti studios di successo. "In DICE, per esempio, hanno 40 microonde e una valanga di macchine per il caffè. Anche Media Molecule mi ha confermato che la cucina è fondamentale..."

Kojima ha lavorato a progetti di piccole dimensioni nella sua carriera, come ad esempio Boktai e Snatcher, ma indubbiamente è più conosciuto per i suoi blockbuster, e ammette che i suoi fan si aspettano da lui un titolo d'esordio che eguagli la grandezza dei suoi giochi più ambiziosi e apprezzati. In una recente intervista ha affermato che il suo titolo sarà meno ampio di Metal Gear Solid 5 ma altrettanto ambizioso. "Non sarà un gioco enorme come dimensioni ma lo sarà in quanto a impatto emotivo, o almeno spero", dice. "Voglio un gioco che possa cambiare in qualche modo la vita dei giocatori. Siamo indipendenti ma puntiamo a raggiungere lo stesso livello qualitativo dei team di sviluppo più grandi."

Kojima è anche categorico nell'affermare che la sua azienda non dovrà mai crescere fino a raggiungere le dimensioni di Konami. "Persino ai tempi del primo Metal Gear Solid avevamo oltre 200 persone. Quando le cose si fanno così grandi, persino organizzare una semplice riunione diventa difficilissimo. Io voglio che restiamo piccoli, tanto da non aver neppure bisogno delle riunioni: voglio poter parlare allo staff direttamente. Credo che per lavorare in questo modo il limite massimo sia di circa 100 persone." Il designer crede anche che quando uno studio si espande troppo, i dipendenti perdano la percezione di quello che il loro lavoro rappresenta nel contesto complessivo. "Negli studi più grandi i dipendenti non hanno una visione completa di come si crea un gioco. Si specializzano in un'area ma non capiscono il modo in cui questa si integri con il resto. Io voglio che ognuno, nel mio staff, abbia ben chiaro il quadro completo."

Kojima, in cerca di un 'motore' per il suo titolo.

Con il declino della games industry giapponese, nel corso degli ultimi 15 anni molti sviluppatori di alto profilo hanno abbandonato le loro case madri e fondato studi indipendenti, trovando la libertà ma al tempo stesso andando incontro ai problemi di chi lascia una grossa azienda per lanciarsi in una nuova avventura. Hironobu Sakaguchi, fondatore di Square Enix, si è trasferito alle Hawaii da dove ha realizzato un gioco sulla sua passione: il surf. Fumito Ueda ha lasciato Sony, continuando a lavorare da freelance sul suo pluri-posticipato titolo, The Last Guardian. Nel frattempo, l'ex-Capcom Keiji Inafune si è lanciato nella sua avventura privata con il crowdfunding di Mighty no. 9.

Più o meno tutti questi personaggi si sono sbottonati nel commentare la loro precedente azienda e situazione lavorativa. Anche Kojima, concluso il suo viaggio per gli studios in giro per il mondo, ha iniziato a commentare lo stato della games industry giapponese. "Le aziende giapponesi non rispettano particolarmente i creativi", dice. "Quelle americane ed europee cercano di ottenere il massimo dai loro dipendenti, di portarli al successo e, attraverso questo, dare successo anche al gioco."

In Giappone, invece, l'aspetto principale è il successo commerciale. "Si parla solo di quanti soldi possa fare un gioco. Ai dirigenti non interessano i contenuti e questo danneggia il valore artistico." Kojima, invece, vuole investire sul talento in modo significativo. "Kojima Productions non sarà la tipica azienda giapponese alla quale i dipendenti devono interamente devolvere la loro vita. Non voglio costringere nessuno a lavorare con me per i prossimi vent'anni. Le persone di talento devono poter essere libere di andare dove vogliono, creando cose nuove sotto il loro proprio nome. Spero di poter facilitare questo processo."

Una simile dichiarazione potrebbe sembrare in contrasto con una carriera durante la quale Kojima stesso ha raccolto la maggior parte della gloria e dei riconoscimenti derivanti dal lavoro del suo team. Per creare un blockbuster servono centinaia di persone, eppure a parte Yoji Shinkawa, l'art director che Kojima ha portato con sé dai tempi del liceo e con cui ha sempre lavorato, pochissimi altri membri del team di Metal Gear Solid sono noti al grande pubblico. "Servono molte persone per fare un gioco, ovviamente. Tutti coloro i quali hanno fatto un grande lavoro nel loro settore, hanno avuto prima un riconoscimento all'interno del team, e poi da parte del pubblico." In alcuni casi, come quello dell'artista 3D che ha aiutato a modellare il cavaliere futuristico che fa da mascotte allo studio, Kojima crede che pubblicizzare troppo il lavoro di un membro del team possa porre quest'ultimo sotto uno stress eccessivo. Alcuni preferiscono rimanere relativamente nell'anonimato.

Per quanto Kojima voglia introdurre un nuovo e più moderno modo di lavorare, la sua convinzione riguardo la necessità di una figura guida che dia la giusta visione rimane assoluta. "Delegare troppo il lavoro è pericoloso. Per esempio, sono un grande fan di Nick Park, direttore di Aardman Studios. Ha impiegato sette anni per fare il suo primo film, utilizzando la stop motion. Il risultato è brillante." Dopo il successo di A Grand Day Out, Park ha ricevuto un'offerta da DreamWorks per realizzare un film blockbuster. "Lo studio non voleva aspettare sette anni per far uscire anche questo film", dice Kojima, "quindi hanno diviso il lavoro tra più aziende di produzione. L'idea era di realizzare un film simile a quello d'esordio, ma in soli 18 mesi."

Park ha speso molto del suo tempo viaggiando tra i differenti studios e supervisionando il lavoro di ognuno. "La differenza, in termini di risultato, si è vista”, dice Kojima. "Chicken Run non è bello come il film d'esordio di Park. Qualcosa si era perso." Per Kojima è molto importante bilanciare ambizioni e possibilità realizzative: "sto cercando di individuare il giusto equilibrio tra le necessità di una produzione in tempi veloci e quelle di un lavoro intricato, complesso e ben svolto. Non possiamo aspettare sette anni per lanciare il mio prossimo titolo. Il pericolo, però, è che se acceleriamo troppo lavorazione e uscita, finiremo per creare qualcosa di diverso da quello che il pubblico vuole da me."

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A proposito dell'autore
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Simon Parkin

Contributor

Simon Parkin is an award-winning writer and journalist from England, a regular contributor to The New Yorker, The Guardian and a variety of other publications.
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