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15 minuti con John Romero - intervista

A tu per tu col designer, programmatore e sviluppatore che ha fatto la storia dei videogiochi.

Viviamo in tempi dove le cose accadono molto velocemente e pochi anni sono ere geologiche. E in cui gli eroi di ieri vengono dimenticati velocemente. Uno di questi è senz'altro John Romero, l'uomo dietro titoli quali Wolfenstein 3D, Hexen, Doom e Quake. Pilastri dell'intrattenimento videoludico, risalenti però a vent'anni fa.

John Romero non è più l'uomo famoso che era una volta, ma chi degli eroi degli anni '90 lo è ancora? Non Peter Molyneux, Will Wright o Louis Castle, per dirne alcuni. E neanche David Perry e John Carmack, che hanno trovato una seconda vita 'parallelamente' ai videogiochi.

Se c'è una dote che è mancata a John Romero, dopo id Software, è stata il tempismo. Ma al contrario, dato su alcune cose ci ha visto troppo lungo, ad esempio fiutando il mobile quando gli smartphone non esistevano ancora e sul mercato c'era solo il Nokia N-Gage. Poi ha tentato incursioni negli MMO e nei giochi per Facebook: di certo, in questi anni non ha riposato sugli allori.

Alla luce di tutto ciò non stupisce che i quindici minuti che ho passato con John Romero alla Games Week di Milano siano stati molto interessanti. Non lo avevo mai intervistato prima e ho scoperto un grande affabulatore, una persona ricca di aneddoti e capace di attingere a piene mani dalla storia dei videogiochi. Non so se e quando avrò modo d'intervistarlo ancora, certamente chiederò molto più tempo di quello che ho avuto a disposizione.

Eurogamer.it L'industria è cambiata notevolmente da Doom a oggi. Qual è il tuo bilancio?

John Romero È quello di una persona che ha dovuto cambiare costantemente insieme all'industria stessa. Dopo Daikatana stavo lavorando ancora a uno shooter. Ma nel frattempo il mondo mobile stava formandosi e dopo aver lanciato Anachronox nel 2001, avviai subito una compagnia il cui compito era proprio creare i primi videogiochi mobile. Il mercato però era un incubo, la tecnologia cosi arretrata...

John Romero, designer, programmatore e sviluppatore di videogiochi, com'è oggi.

Eurogamer.it Hai lavorato anche sul Nokia N-Gage, se non sbaglio...

John Romero Sì, a Red Faction. Era un gioco 3D con multiplayer in Bluetooth, probabilmente un po' prematuro per quei tempi. Ma il mercato non esisteva ancora e il dispositivo aveva un design assurdo: ad esempio la cartuccia andava messa sotto le batterie, che dunque bisognava rimuovere ogni volta si voleva cambiare gioco. Se ora esiste realmente un mercato mobile, lo dobbiamo ad Apple.

Un altro grosso cambiamento per me è stato World of Warcraft. Quando uscì io ero un giocatore di Ultima Online e capii che avrebbe cambiato la scena degli MMO. Era come se avessero preso il meglio di Everquest e Ultima Online, e l'avessero messo in un singolo prodotto. Nel 2005 decisi di entrare in quel mercato, creando una compagnia per sviluppare un MMO educativo per ragazzi. La parte educativa era opzionale, quasi nascosta, coi giocatori che non si accorgevano neanche della sua presenza.

Eurogamer.it Come si chiamava?

John Romero Non ha mani avuto un nome. Ci ho lavorato sopra per 4 anni con un team di 100 persone sotto Gazillion Entertainment, poi il progetto è stato cancellato perché lanciare un MMO era difficile già allora.

Poi ho realizzato un gioco per Facebook che ha dato fastidio a Zynga, mentre ora sono tornato su mobile e sto lavorando a un titolo che combina tre videogame che apprezzo come FTL, Papers, Please e Ridiculous Fishing. Si chiama Gunman Taco Truck, e devi consegnare del cibo con un furgone armato fino a denti negli Stati Uniti dopo un olocausto nucleare. Le piattaforme saranno iOS, Android e Windows e sarà disponibile tra poco. Sarà un gioco ricco di umorismo ma anche molto difficile.

Eurogamer.it Hai iniziato in un periodo in cui un manipolo di studenti universitari poteva cambiare il mondo dei videogiochi, oggi non sarebbe più possibile: si stava meglio una volta od oggi?

John Romero alle sue origini, quando rivoluzionò il mondo dei videogiochi ai tempi di id Software.

John Romero Penso che oggi ci si trovi nel miglior periodo possibile. L'industry dei videogiochi è incredibilmente accessibile e permette di fare dei bei giochi a chiunque. Quando ho iniziato a programmare, nel 1979, non esistevano motori grafici da prendere in licenza: se volevi creare un videogame dovevi farti il tuo engine. Ora ce ne sono in giro tanti da scaricare, molti dei quali gratuiti, col risultato che ci si può concentrare maggiormente sul design. E se vuoi studiare come programmare un videogioco, ci sono molte università che t'insegnano a farlo: ancora una volta, ai miei tempi c'erano giusto due libri ma nessuno che t'insegnasse come programmare. Chiunque facesse giochi spendeva tutto il suo tempo... a creare i videogiochi!

E la possibilità di cambiare il mondo dei videogiochi è ancora alla portata di tutti. Basti pensare a Minecraft, un gioco semplicissimo realizzato da una sola persona e che Microsoft ha comprato per 2,5 miliardi di dollari. Marcuss Persson ha dimostrato che alla fine quello che conta è il design: la gente non gioca il tuo videogame perché ha una bella grafica, perché usa l'Unreal Engine 4, lo fa perché hai avuto l'idea giusta o ne hai rielaborata un'altra nel modo corretto.

Ma il design è anche figlio delle possibilità offerte dalla tecnologia. Gli FPS non li abbiamo inventati noi, quando uscimmo coi nostri giochi esistevano già dal 1974 e giravano sui mainframe. Anche negli anni '80 s'era visto qualcosa ma con risultati sui quali nessuno avrebbe mai scommesso dei soldi. Se ideammo Wolfenstein, poi Doom e Quake, è perché la tecnologia ci permise di concretizzare le idee che avevamo in mente. Certo, Minecraft è qualcosa che avrebbe anche potuto essere realizzato prima su hardware più primitivi.

Eurogamer.it È da tanto che non si vedono più nuovi generi affacciarsi sul mercato. È il medium che è ormai giunto nella sua maturità o c'è ancora spazio per l'innovazione?

John Romero Credo che sia ancora spazio per l'innovazione perché l'evoluzione della tecnologia permette, se non la creazione di nuovi generi, l'evoluzione di quelli già esistenti. Prendi le avventure: prima erano testuali, poi sono diventate grafiche e ora si sono evolute nei cosiddetti "walking simulator". Nel 1962 IBM creò una simulazione di nome Sumer: girava sui maniframe e quel concept venne poi rielaborato da Will Wright in Sim City. O ancora: il primo RTS fu Dune 2, nel 1992, e da esso sono poi discesi Command & Conquer, Starcraft e Warcraft.

Per John Romero anche oggi un singolo sviluppatore può cambiare il mondo dei videogiochi. E Minecraft ne è l'esempio migliore.

Eurogamer.it Il che ci porta alla mia ultima domanda: 4K e HDR cambieranno il linguaggio dei videogiochi? O sarà piuttosto la realtà virtuale a farlo?

John Romero Così come i migliori videogiochi per mobile non sono porting di titoli per PC e console, ma qualcosa ideato ad hoc per quella piattaforma, lo stesso dovrà accadere per la realtà virtuale. I migliori titoli per la VR saranno quelli che non potrebbero esistere all'infuori di essa. La realtà virtuale ha dei limiti, come ad esempio la sensazione di nausea che è capace di generare, e generi di successo come gli sparatutto andranno riadattati.

Un esempio, in ambito mobile, è Hitman Sniper: gestire un avatar in un ambiente tridimensionale con controlli touch non funziona, ma se togli tutti i movimenti e lasci un gioco dove semplicemente prendi la mira e spari, ecco che hai realizzato un prodotto che funziona bene sugli smartphone. Allo stesso modo se vuoi fare un FPS per la VR è meglio evitare di far camminare la gente. Sarebbe preferibile piuttosto creare un gioco in cui ci si sposti da una parte all'altra dell'ambiente con un rampino che funga da teletrasporto, grazie al quale sparare restando aggrappati alle pareti.

Quanto ai 4K, i nostri occhi funzionano a 16k per cui fino che non si arriverà a quella risoluzione, non credo cambierà molto. Al più potrà essere interessante se si mira a ricreare esperienze fotorealistiche. Tornando invece alla realtà virtuale, credo che il vero problema sia il senso d'isolamento che comporta una volta che ci si mette il visore sugli occhi. Si dovrà lavorare molto per creare un sistema inclusivo e non esclusivo di ciò che ci circonda, una Realtà Virtuale Aumentata che prenda il mondo circostante, lo rielabori e quindi lo proietti all'interno del visore.