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Underworld Ascendant - prova

Ritorno alla libertà del passato. Ma…

Prima di parlare di Underworld Ascendant bisogna ripassare una parentesi della storia dell'ultimo ventennio. Un periodo che si è reso teatro dell'interminabile braccio di ferro che ha visto Paul Neurath, già produttore di System Shock e designer di Ultima Underworld: Stygian Abyss, impegnato contro Electronic Arts, detentrice dei relativi diritti. Una battaglia pacifica che si è conclusa quando, nel corso del 2014, il colosso di Redwood ha parzialmente mollato il colpo, concedendo le licenze relative a personaggi, ambientazione e lore nelle mani del produttore indipendente ma lasciando il fortissimo brand Ultima al di fuori dell'accordo. Un momento che ha coinciso con la fondazione di Other Side Entertainment, software house che nel giro di pochi anni si è trasformata in un approdo appetitoso per numerose leggende del settore videoludico.

Lo stesso nome "Other Side" è un esplicito riferimento a Looking Glass Studios, impresa fondata da Neurath e madre della serie di Ultima, dell'ambizioso System Shock e delle blasonate prime istanze di Thief. La mela non poteva certo cadere lontana dall'albero: Underworld Ascendant è un immersive simulator strettamente legato ai concetti di gameplay emergente e narrativa non lineare. Fin dal momento del debutto su Kickstarter, numerosi monumenti si sono avvicinati al team: basta citare Warren Spector, anima di Ultima e acclamato padre di Deus Ex, o ancora Austin Grossman, scrittore della saga di Dishonored e membro della prima ora di Looking Glass. Inutile dire che gli utenti si aspettavano un'opera dalla doppia anima, per metà figlia del game design anni '90 e per metà trionfo della creatività emergente.

Le bacchette hanno gli effetti più disparati: dalle classiche manipolazioni del fuoco e dell'acqua, passando per la levitazione e arrivando infine all'interazione con materiali specifici.

Il viaggio onirico del nostro Avatar ha avuto inizio tra le grotte di un dungeon nel cuore dello Stygian Abyss, l'immenso mondo che si nasconde al di sotto di Britannia. Fin dalle prime battute di gioco le umide pareti delle caverne trasudano l'esperienza di Looking Glass; trovandosi di fronte ad una banale porta di legno, infatti, le possibilità sono molteplici: il fuoco gioca un ruolo fondamentale e, sollevando una qualsiasi trave dopo averla incendiata, è possibile incenerire i cardini e superare agilmente l'ostacolo. Qualcun altro, invece, preferirà sfruttare la forza bruta, sacrificando l'integrità delle proprie nocche per sfondare ogni singola fibra vegetale. Altri ancora potrebbero sfruttare la versatilità della magia, facendo levitare con eleganza la struttura al di fuori del suo incavo.

Non importa quale sia l'ostacolo, non importa il numero dei nemici: l'unica cosa che conta è la capacità di piegare il motore chimico e fisico al nostro volere. Una stanza su più livelli pullula di scheletri armati e noi possiamo contare solamente su qualche ammennicolo ben lontano dalla letalità di una lama. Cosa fare? Avremmo potuto impilare una serie di casse per raggiungere il cornicione più vicino, passando inosservati all'occhio dei non morti. Ma, dopo una fase di studio, abbiamo scelto di testare una soluzione più macchinosa: nella stanza precedente ci eravamo imbattuti in una serie di anfore ricolme d'acqua. Lanciandole contro fiaccole e candelabri abbiamo ridotto la stanza alla totale oscurità per poi schivare gli spiriti senza muovere nemmeno un dito.

Capite dunque che il level design gioca un ruolo di massima importanza nell'economia dell'offerta. Non ci troviamo, come potrebbe sembrare inizialmente, di fronte a una serie di corridoi da affrontare come enigmi individuali, bensì in stage decisamente aperti e capaci di celare al nostro sguardo forzieri e aree nascoste. Proseguendo tra i cunicoli, infatti, abbiamo incontrato una serie di letali piante carnivore; da un lato potevamo scorgere il portale di fine livello, mentre ai margini della stanza una piccola apertura suggeriva una strada scavata nella roccia viva. Attraversandola abbiamo raggiunto un'antica tomba nascosta in cui destreggiarsi per recuperare un potentissimo anello dimenticato.

Il design di Underworld Ascendant richiama in modo piuttosto evidente i contenuti e le cover art delle esperienze ruolistiche di prima generazione. La domanda è legittima: funzionerà anche al giorno d'oggi?

Tra frecce acquatiche, bacchette in grado di interagire unicamente con il legno e pietre magiche utili per illuminare gli angoli più oscuri, ci siamo fatti largo tra le pattuglie di scheletri depredando stanze del tesoro nascoste in anfratti improbabili e mettendo alla prova quella progressione non lineare che caratterizza profondamente il sistema di sviluppo. I vari dungeon, infatti, cambiano per forma e dimensioni quando studiati attraverso il sistema di skill: l'albero del ladro, ad esempio, permette di scalare le pareti molto più velocemente, o ancora di accedere a un pratico sistema di warp, utilissimo per raggiungere luoghi inaccessibili e confondere i nemici.

La libertà non si fa imbrigliare neppure dai confini del character building: senza sacrificare alcuna opzione, possiamo sfruttare anche le abilità del mago e del guerriero per prendere di petto gli avversari e trovare ulteriori soluzioni non convenzionali. La scelta di un determinato albero di skill non è assolutamente limitante, anzi: la stessa esperienza incoraggia il giocatore a diversificare il più possibile l'approccio e chiunque può contare sull'efficacia delle lame incantate e sulla versatilità delle Rune per scatenare effetti imprevedibili ed estremamente situazionali, capaci di dare il meglio di sé quando messi a disposizione di una mente fuori dagli schemi.

Proseguendo oltre la fase introduttiva, Underworld Ascendant ha inaspettatamente accantonato la sua anima di dungeon crawler arcade per aprirsi in un hub di gioco colmo di misteri e zone nascoste; inutile dire che non ce l'aspettavamo: il nostro tempo di prova era oramai agli sgoccioli ma non siamo riusciti a trattenere la curiosità e abbiamo sbirciato quanto più possibile, imbattendoci in un'accattivante bacheca delle missioni e in una serie di buffi nonché improbabili NPC. È allora che il titolo indossa le vesti dell'esperienza completa, stemperando la solitudine tipica del genere e ponendo l'accento sulla caratterizzazione dell'universo narrativo.

Non si può dire che lo Stygian Abyss non sia ben caratterizzato, anzi: le gigantesche statue e le volte nascoste riescono più di una volta a stupire il giocatore.

Il nostro nemico è uno e uno solamente: il dio Typhoon, l'unica ragione per cui l'Avatar attraversa le caverne dell'abisso. Sotto lo sguardo attento dei Dark Elves, degli Shamblers e dei Dwarves è l'ingegno a essere messo costantemente alla prova: l'intera esperienza non è altro che un test, un viaggio di formazione fondamentale per ispirare altri a seguire le nostre orme nella ricerca della pericolosissima divinità.

Sia ben chiaro: nonostante un gameplay emergente capace di tenere in costante movimento gli ingranaggi tanto della nostra mente quanto dell'ambiente di gioco, Underworld Ascendant resta un titolo sviluppato da solamente 14 persone, per di più nell'ecosistema di Unity. Se da un lato questa sfumatura tecnica porta con sé un buon livello di versatilità del codice favorendo la trasmigrazione dell'opera su altre piattaforme, d'altra parte l'esperienza si accompagna ad una caratterizzazione tecnica ed estetica piuttosto minimalista, per non dire scarna. Il design dei nemici ricorda la clay art ed è molto vicino alle fatiche di Looking Glass risalenti ai primi anni '90, mentre le ambientazioni, almeno inizialmente, non spiccano certo per dovizia di dettagli e caratterizzazione estetica complessa.

È anche vero che l'oggetto della nostra prova è stata una (very) early build dalla quale era molto difficile percepire il feeling del prodotto finito, forte di un'intelligenza artificiale singhiozzante e di una costante, leggera sensazione di horror vacui. Avremmo preferito uno stile grafico più cartoonesco, in grado di stringere nell'abbraccio del cel shading il feeling della tradizione rinnovata: è molto difficile, infatti, trovare un punto d'incontro tra la classica filosofia di game design e le moderne tecniche caratterizzanti. D'altra parte Richard Garriot, Warren Spector, Paul Neurath e Doug Church sono blasonati pionieri della libertà creativa e hanno saggiamente indirizzato gli sforzi della filiera produttiva nella direzione in cui si potevano muovere più agilmente.

Certo, l'arco è un'arma da fuoco, ma nell'ecosistema dell'immersive simulator è uno strumento indispensabile per interagire con l'intero ambiente di gioco.

Se, nel corso della vostra carriera da videogiocatori, avete spento con piacere le fiaccole di Thief e avete lasciato il segno nei cunicoli dello Stygian Abyss sappiate che Underworld Ascendant si presenta come un gradito ritorno al passato, un trionfo dell'approccio non convenzionale. Trovandoci a sole due settimane dal day one, tuttavia, il godimento dell'opera non può essere altro che il frutto di un compromesso: allo stato attuale, avremmo preferito aspettare un altro anno e accettare un price tag più elevato per ottenere in cambio un'opera più rifinita e meno raffazzonata, capace di portare su schermo una traduzione visiva dell'effettiva volontà degli sviluppatori.

Dalle prime ore di prova, invece, traspare una certa dissonanza tra ciò che il titolo vorrebbe rappresentare e ciò che invece finisce per essere. Non è un segreto che, nel corso degli ultimi anni, il sottobosco degli immersive simulator si sia arricchito di veri e propri capolavori, in prima linea nella trincea dell'innovazione tecnica e funzionale. Underworld Ascendant, dal canto suo, appare come un'egregia celebrazione dei tempi che furono, un'operazione nostalgia destinata a solleticare il palato di coloro che hanno amato i dungeon della vecchia scuola, niente di più e niente di meno.