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La dolce trappola del Game as a Service - editoriale

Gioie e dolori dei Live Game su console.

Anzitutto, è bene fare una piccola premessa. Molto spesso siamo portati ad indicare come Games as a Service esperienze molto diverse tra loro, dal Live Game al cosiddetto Lifestyle Game, dai titoli free-to-play fino alle opere episodiche. Analisi di mercato risalenti addirittura a una decina di anni fa indicavano come "Game as a Service" tutte le release accompagnate da una Season Pass o comunque supportate attraverso iniezioni di contenuti su base stagionale, monetizzate attraverso microtransazioni e servizi in abbonamento.

La filosofia economica del Game as a Service, dunque, non è altro che una macro-categoria della quale fanno parte le scelte di design alla base di tutte le formule Live Game su console, non necessariamente MMO, ma comunque parte dell'eredità spirituale "Warcraftiana" o, se vogliamo andare ancora più indietro, vicine ai mondi di Ultima Online e Runescape.

Destiny: Il Re Dei Corrotti è il benchmark per chiunque voglia confrontarsi con i Live Games. La formula endgame impeccabile si coniugava alla perfezione con il design d'ispirazione Blizzardiana, dando vita ad un contenuto senza precedenti.

Destiny, Warframe, The Division, Sea of Thieves, Fallout 76 e l'imminente Anthem. La storia degli ultimi cinque anni è costellata di prodotti costruiti su una pietra angolare ben precisa: dare vita a mondi in costante evoluzione e mutamento, nel tentativo di fidelizzare le community il più a lungo possibile e rimanere in vetta alle classifiche di consumo, ritagliandosi un posto in pianta stabile tra i feed dei creatori di contenuti e conquistandosi uno spazio nel cuore della cultura pop.

La formula del Live Game è, senza alcun dubbio, una gallina dalle uova d'oro; eppure, gli ultimi prodotti ad affacciarsi sul mercato si sono resi protagonisti di inaspettati backlash da parte del pubblico e risultati economici tutt'altro che entusiasmanti. Quella che, al momento della nascita, sembrava una vera e propria El Dorado per il mercato dello sviluppo di videogiochi, si è rivelata quasi un miraggio, una meta irraggiungibile sullo sfondo di un percorso irto di pericoli.

Ha poco senso procedere per anzianità: non c'è dubbio che sia stato Destiny a scatenare il secondo Big Bang, portando su console oltre 35 milioni di videogiocatori volenterosi di farsi strada nel sistema solare. Si trattava di un'utenza estremamente variegata: c'era chi arrivava dal mondo degli FPS, chi dalle esperienze MMO tradizionali, una fetta di pubblico nata e cresciuta unicamente attorno al prodotto di Bungie e, addirittura, gruppi di genitori in cerca di un nuovo hobby.

The Division, sulla carta, era un prodotto ineccepibile. Il coraggio dietro la creazione della Zona Nera rappresentava un grosso punto a favore, ma il prodotto non riuscì a superare la prova del tempo.

Niente matchmaking: per progredire nelle attività endgame era necessario relazionarsi con altri giocatori, dando vita a gruppi immediatamente trasformatisi in amicizie destinate a sopravvivere per anni, superando talvolta gli stessi confini virtuali. Bungie aveva fatto sua la lezione impartita dalla prima versione di World of Warcraft, portando la condivisione dell'esperienza su un livello mai incontrato nell'ecosistema da salotto, oltre che impiantando per la prima volta complesse meccaniche di raiding su un eccellente scheletro FPS.

Come spesso accade di fronte alla novità, le numerose critiche sorte al momento del lancio si sono presto dissolte, lasciando spazio ad un costante lavoro di rifinitura culminato con Il Re dei Corrotti e I Signori del Ferro, che detengono tutt'ora il primato quali migliori lanci mai registrati da contenuti aggiuntivi. Comunque dovesse esaurirsi la sua legacy, Destiny rimarrà per sempre un'opera pionieristica: non ha semplicemente inventato un genere, ma è riuscito addirittura ad inventare un pubblico, portando alla luce del sole una categoria di videogiocatori estremamente nutrita e volenterosa di vivere a tutto tondo l'hobby del videogame.

Col senno di poi, fu evidente a tutti la ragione dietro agli strampalati cali di vendita che colpirono alcune tra le serie più acclamate tra il 2014 ed il 2017: i media, di lì a breve, non avrebbero fatto altro che chiedersi quale software house sarebbe riuscita a produrre il cosiddetto "Destiny Killer". Ironicamente, alla fine del percorso, fu proprio Bungie a staccare la spina della sua macchina perfetta; in pieno dominio dei Guardiani, tuttavia, Ubisoft si preparava al debutto di una New York post-apocalittica e innevata, luogo in cui una divisione di agenti aveva il compito di riportare milioni di giocatori con i piedi per terra.

Warframe di Digital Extremes viene spesso inquadrato come un metro di paragone per l'economia free to play sostenibile. Ormai, il titolo occupa una posizione in pianta stabile tra i titoli più attivi su Steam.

The Division poteva contare su un game design ambizioso, deciso e accattivante, su scelte coraggiose e su una direzione artistica eccellente. Eppure, si risolse nel primo, grande passo falso delle esperienze Live Game su console, nonostante il record di vendite registrato nel 2016. Come era possibile? The Division rispondeva egregiamente a tutte le disamine critiche fiorite attorno al prodotto di Bungie: l'assenza di una trama ben radicata nel mondo di gioco, la possibilità di unirsi facilmente ad altri giocatori, la mole di contenuti single player e l'accessibilità del contenuto endgame.

Paradossalmente, si trattava proprio di alcune delle feature che portarono al recente "tracollo" di Destiny 2. In sostanza, le disamine della critica e di una parte della community non rispecchiavano assolutamente i sentimenti del pubblico entusiasta. Possibile che Destiny fosse stato un meraviglioso incidente? Il focus sulla lore piuttosto che sulla trama, il grind su base giornaliera e settimanale all'inseguimento di armi perfette, oltre che il criticatissimo loot system, non erano affatto punti deboli; erano invece il cuore e l'anima celati dietro al successo della produzione.

E così, Ubisoft dovette confrontarsi con la prima, grande trappola del Live Game: oggi, a pochi mesi dal lancio del suo successore, The Division è un titolo completo e rifinito. Purtroppo, però, si tratta di un risultato raggiunto troppo tardi, quando ormai la maggior parte della community aveva abbandonato da tempo le sponde di Manhattan. Presentarsi sul mercato con un Live Game incapace di sostenere il peso dei mesi successivi al day one, significa andare incontro ad anni di investimenti nel tentativo di ricamare l'esperienza attorno alle aspettative dei giocatori.

Il titolo di Ubisoft assistette al lancio nel vuoto dei suoi tre grandi aggiornamenti annuali, mentre l'altrettanto lacunoso Destiny 2, nel corso del 2018, ha registrato il più pesante calo di accessi proprio nella cornice dei contenuti aggiuntivi. Attrarre giocatori nella rete del mondo persistente non è un problema, ma la verità è che le community Live si spazientiscono velocemente di fronte alla carenza di contenuti, sia essa reale o percepita.

Sea of Thieves di Rare, nonostante il corposo supporto post lancio, si può considerare ormai un esperimento fallito. I giocatori bramano disperatamente contenuti su base giornaliera, oltre che un sistema di progressione purtroppo inesistente nei confini dell'esclusiva Microsoft.

La nuova orda di videogiocatori generata da Activision e Bungie brama un motivo per collegarsi su base giornaliera, e non è disposta ad attendere le grandi iniezioni di attività figlie della tradizionale filosofia MMO. Alla necessità di costruire un nucleo accattivante e duraturo fin dal momento dell'esordio sul mercato, si aggiunge quindi l'incalcolabile sforzo derivato dalla costante aggiunta di contenuti, che si tratti di patch volte al bilanciamento o eventi su base stagionale.

Un fattore, questo, che si è tradotto, all'interno dell'organico di numerose software house, nella creazione di due team separati: mentre alcuni developer devono obbligatoriamente concentrarsi sulla costruzione di nuove meccaniche, i neonati Live Team si impegnano a mantenere fresca l'esperienza mese dopo mese. I costi di produzione, di conseguenza, finiscono inevitabilmente per lievitare, rendendo necessaria la ricerca di nuovi strumenti di monetizzazione che difficilmente sono accolti di buon grado dall'utenza.

Ed eccoci, dunque, al secondo trabocchetto: il backlash può nascere dall'inserimento delle microtransazioni all'interno di opere che, per loro stessa natura, richiedono un costante investimento economico, o ancora dal sistema di Season Pass, oramai percepito come un acquisto al buio. Ed è proprio ciò che è accaduto, rispettivamente, con la discussa Everversum di Destiny 2, che andava a sottrarre loot dalle normali tabelle per reinserirlo sotto forma di contenuto a pagamento, e con il primo DLC La Maledizione di Osiride, giudicato dagli appassionati come uno sforzo insufficiente.

La microtransazione, in sé e per sé, non rappresenta un problema per il pubblico: Digital Extremes, ad esempio, ha fondato l'intera produzione del suo free to play Warframe proprio su questo sistema, ma si tratta, per l'appunto, di un'esperienza completamente gratuita.

Anthem di Bioware lasciò intere platee dell'E3 con il fiato sospeso nel corso della presentazione. L'hype, tuttavia, sembra essersi stemperato nel corso degli anni. Forse, il Live Game è qualcosa di troppo grande per l'universo tripla A.

Sea of Thieves, dal canto suo, si è affacciato sul mercato con una formula piuttosto atipica: lanciato ad un prezzo ragionevole, è entrato a far parte dei titoli di Xbox Game Pass per poi arricchirsi con iniezioni di contenuti generosamente offerte da Rare. Si trattava di una scelta ponderata, oppure di una misura adottata in risposta alle pesanti critiche ricevute al momento dell'uscita?

Quel che è certo, è che le promesse degli sviluppatori non sembrano aver convinto l'utenza, a dispetto di un modello economico oltremodo user friendly. Il che ci porta all'ultimo, importantissimo tassello nell'intricato puzzle nascosto dietro le esperienze Live Game: la nuova, fondamentale importanza della comunicazione.

Roadmap, dirette streaming, post nei forum: se i giocatori devono salire a bordo della nave, vogliono conoscere la destinazione con larghissimo anticipo; l'apparato comunicativo e la figura del community manager occupano ormai un posto in pianta stabile al centro del palcoscenico, inaugurando un'epoca in cui ogni singola dichiarazione si porta dietro un peso specifico incredibile.

Destiny 2 ha visto la caduta dei giganti, portando alla scomparsa di figure come Luke Smith, un tempo punto di riferimento dei Guardiani, e perfino di DeeJ, per anni paladino degli incontentabili "redditors", oggi timida presenza nel corso delle dirette di Bungie su Twitch; un plauso va fatto proprio a Digital Extremes, capace di creare un filo diretto con i giocatori di Warframe solido al punto da gettare le basi per una convention ormai riproposta su base annuale.

E se fosse proprio Bungie a far rifiorire il genere dei Live Game con Destiny 3?

Si tratta però di mosche bianche: muoversi nella cornice del Live Game, infatti, è come rimanere in equilibrio su una fune, e non sono assolutamente concessi scivoloni. In caso di passi falsi, i giocatori si sentono traditi da un mondo che fa parte del quotidiano, senza contare che le moderne community non aspettano altro che un bersaglio mainstream sul quale scagliarsi con la furia delle critiche e dei meme, destino recentemente toccato a Fallout 76 di Bethesda Game Studios.

Tra complessi sistemi di monetizzazione, un gigantesco sforzo richiesto per sostenere i titoli e un pubblico a tratti ingestibile, quell'El Dorado rappresentata dalla formula del Live Game si sta rivelando anno dopo anno una città dalle tinte Lovecraftiane, e il primo Destiny rimane tutt'oggi l'unico reale successo di questa moderna filosofia di game design. Eppure, le grandi software house sanno che quegli oltre 40 milioni di videogiocatori sono ancora lì, impegnati a farsi largo nella selva dei titoli per console, in trepidante attesa di ritrovare quelle stesse sensazioni provate nel corso del magico triennio.

Chi riuscirà a risolvere l'equazione? Magari sarà Bioware attraverso il suo Anthem, primo progetto di Electronic Arts a spingersi oltre i confini del Live Game e titolo di punta dell'E3 2017. Forse sarà Ubisoft a calare un Poker per mezzo di The Division 2, figlio dell'esperienza maturata nel corso dell'ultimo biennio. Oppure, toccherà proprio alla "fondatrice" Bungie che, a quanto pare, ha messo in cantiere Destiny 3 una volta ritrovata la retta via grazie al DLC I Rinnegati.

I tempi sono cambiati: oggi ci chiediamo chi sarà in grado di produrre il "Fortnite Killer". E chissà, può darsi che proprio dalle ceneri dei Live Games riesca a sorgere l'eroe di cui abbiamo bisogno.

Avatar di Lorenzo Mancosu
Lorenzo Mancosu: Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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