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La silenziosa e straripante forza dei videogiochi - editoriale

Alcune avventure diventano possibili unicamente grazie ai videogames.

Al giorno d'oggi, le occasioni in cui il medium dei videogiochi riesce a sgomitare con estrema fatica per raggiungere la stampa generalista si possono contare sulle dita di una mano. Ma non solo: anche quando finalmente si verifica la convergenza astrale necessaria per far parlare del videogame, spesso e volentieri lo si deve a casi di cronaca, sparatorie, episodi di dipendenza e case study sul gioco d'azzardo.

Un senatore punta il dito contro le pericolose macchine plagianti, qualche giornalista presenta il pezzo del decennio paragonando i mondi virtuali al lavoro di satana, nei casi più estremi vanno in onda nella fascia prime-time servizi televisivi di dubbia fattura, pensati per fornire ai genitori uno scrupoloso know-how riguardo la gestione del 'problema' dei propri figli.

Siamo al tramonto del 2019, eppure lo stigma sociale è ancora più forte che mai, secondo una tradizione tipicamente italiana. Una tradizione che, infine, è riuscita ad attrarre nella sua tela persino la stampa di settore, ormai impegnata a prendere le difese del medium denigrando le scarse competenze del non-esperto di turno piuttosto che divulgando l'incalcolabile potere benefico di quella che è una vera e propria corrente culturale.

Lasciando l'analisi scientifica nelle sapienti mani dei neuroscienziati, oggi ho deciso che vale la pena di raccontare quella che è una storia vera, lontana dalle analisi statistiche e dalle ipotesi degli psicanalisti, vicina invece alle piccole e grandi battaglie del quotidiano e, ovviamente, intrecciata con il magico mondo dei videogiochi.

Dal paese di Biancavilla, splendidamente reinterpretato nel recente Pokémon Let's Go, aveva inizio una delle avventure più incredibili di sempre.

Una storia che inizia negli anni '90, ai tempi in cui per usare un cellulare bisognava portarsi dietro una valigetta, quando i primi personal computer della Compaq si facevano strada negli uffici ed internet era ancora fantascienza. I bambini giocavano a mago libero, a ce l'hai, correvano a lungo nei prati poco prima di tornare a casa per il consueto appuntamento con Dragonball Z, per poi avvicinarsi timidamente alla lettura attraverso i grandi fumetti, le collane del Battello a Vapore e, perché no, anche i Piccoli Brividi.

Stagioni che raccontavano un'Italia diversa, spensierata, meno livorosa, il teatro perfetto per vivere un'infanzia ancora lontana dal potere seduttivo della tecnologia. Ma come in ogni epoca, purtroppo, non tutti i bambini potevano godere delle medesime fortune: mentre qualcuno si concedeva lunghe estati all'insegna di castelli di sabbia e piste da biglie, altri non potevano fare altro che osservare il mondo dalla corsia di un ospedale.

Sapete, contrariamente rispetto a quanto si potrebbe pensare, i reparti di pediatria non sono luoghi cupi e mesti, non trasudano tristezza e arrendevolezza. Sono corsie vitali, fresche e colorate che assieme all'abbraccio dei genitori e allo straordinario operato degli addetti ai lavori riescono a far scorrere i mesi come fossero acqua, senza mai permettere che i pazienti si sentano abbandonati in uno stato di malinconica consapevolezza.

Del resto, l'infanzia porta sempre ad osservare unicamente il lato migliore delle cose, e ciò è vero anche quando iniziano ad arrivare i primi disegni dei compagni di classe che invitano a "tornare presto", ancor di più quando ci si trova di fronte ad un macchinario come quello per la Risonanza Magnetica, che sembra uscito da una scena di Star Wars: l'Impero Colpisce Ancora.

Pensando al nostro quotidiano, tendiamo spesso a dimenticare quelle piccole cose che diventano possibili solamente grazie all'esistenza delle console portatili.

Ma a prescindere dallo straordinario potere dell'immaginazione, la condizione del ricovero porta inevitabilmente i bambini a sacrificare una fondamentale dose di esperienze che sono imprescindibili nel processo della crescita. Mancanze che si possono colmare unicamente attraverso gli sforzi degli amici più intimi, l'impegno dei parenti, il lavoro dei volontari e una sana dose di distrazioni e valvole di sfogo.

Nelle stanze asettiche ma stranamente calde delle strutture ospedaliere milanesi, vent'anni fa, c'erano due bambini che contavano l'incedere delle settimane scambiandosi un Game Boy ed un Game Gear, sfogliando riviste come Mega Console in cerca di immagini delle nuove macchine all'avanguardia, riponendo i videogiochi sui quei comodini già affollati di numeri del Topolino, poco prima di chiudere gli occhi in attesa di un nuovo giorno.

Quando la neve all'esterno non ha alcuna importanza e l'avvenimento più emozionante della settimana è un esame ai raggi x, anche un infante arriva a comprendere l'incalcolabile valore di un'avventura. Nel caso specifico, la prima iterazione di Pokémon permetteva di viaggiare in un mondo confortevole, stimolante e carico di messaggi positivi. Sussurrava: "Questo sei tu, e nel nostro mondo sei destinato ad essere il migliore. Lotta, non arrenderti, e vedrai che ce la farai".

A differenza del magico rapimento magistralmente messo in scena da J.K. Rowling attraverso l'universo di Harry Potter, quel curioso prodotto d'intrattenimento brillava luminoso come la Stella Polare grazie alla benefica carezza dell'interattività. Perché era l'unica occasione, per quei bambini, per vivere un'avventura da protagonisti assoluti, forgiando da sé il proprio destino, assaporando per la prima volta lo strepitoso gusto dell'esplorazione di orizzonti ignoti.

Oggi (forse) non farà lo stesso effetto, ma il primo incontro con il tridimensionale regno di Hyrule fu qualcosa d'indescrivibile.

Una volta spostato l'interruttore su OFF, la magia s'interrompeva con meraviglia, e l'esperienza appena conclusa si traduceva in un ampio sorriso dipinto sul volto dei giovani sognanti. Purtroppo, la realtà non è governata da semplici pulsanti, e nulla può frenare l'incedere del tempo. Era rimasto un solo bambino nella stanza, l'ospedale era cambiato, i medici anche, lunghi periodi di recupero si alternavano ad esami clinici più o meno invasivi.

Dopo un interminabile digiuno, la dietologa del San Raffaele aveva finalmente detto al bimbo che avrebbe potuto mangiare una mela. Bramava quel frutto, così come bramava quella confezione di cartone nero ornato d'oro appena arrivata, un nuovo specchio da attraversare come Alice per trovarsi catapultati nel cuore di un mondo alieno. Si trattava del blasonato The Legend of Zelda: Ocarina of Time.

Era un sole nella stanza: la fredda cartuccia di plastica nascondeva al suo interno un vero e proprio squarcio nella realtà, un potere capace di strappare le pareti asettiche per disegnare panorami verdi e azzurri, montagne imponenti, deserti sconfinati, fantastici castelli. Era un pentolone in cui si mescolavano fantasia ed interattività, scoperte e sensazioni; una vera e propria avventura, nel senso più concreto e terra terra del termine, una fiaba che prendeva lentamente forma per poi esplodere grazie alla spinta dell'immaginazione.

Era senza ombra di dubbio una delle più grandi avventure mai vissute da quel bambino e, fortunatamente, sarebbe stata solo la prima di una lunghissima serie. Proprio come nelle storie a lieto fine dei libri, dei cartoni animati, dei film e dei videogiochi, il lungo percorso fra quei corridoi dal profumo particolare stava per interrompersi bruscamente, riportandolo nuovamente al mondo celato dietro quel primo, sottile strato di realtà.

Con la tecnologia odierna, chiunque ha la possibilità concreta di perdersi in un mondo di strabilianti avventure.

L'estate successiva, infatti, la sabbia battuta dal sole di agosto ospitava anche le sue orme, accanto a quelle degli amici di una vita: fra le mani impugnava un bastone, ripensando ai momenti in cui l'eroe del tempo Link aveva salvato il regno di Hyrule grazie alla Spada Suprema, dimentico di tutti i piccoli momenti di difficoltà e armato di un nuovo strumento per affrontare la crescita.

I videogames costituiscono una forma espressiva alla quale è molto facile appassionarsi, specialmente per un bambino; qualcuno crescerà accompagnato dagli insegnamenti delle arti marziali, qualcun altro potrà contare sulla spinta dello sport, alcuni avranno la fortuna di trascorrere l'infanzia a contatto con la natura, altri dovranno farsi spazio nel cemento delle città. Al medium del videogioco va riconosciuto il merito di essere l'unico strumento capace di regalare esperienze attive e formanti, a prescindere dalle condizioni psicofisiche e sociali.

Devo ammettere che mi ha sempre fatto ridere quella frazione di appassionati che crede d'insultare un colosso come Nintendo affermando che realizza “giochi per bambini”. Perché, a conti fatti, credo che non possa esistere alcun complimento più grande per un'artista. Da qualche parte nel mondo, in questo preciso momento, c'è sicuramente un bambino rinchiuso in una stanza asettica, prigioniero di una realtà ostile, ma mondi magici come quello di Hyrule continuano ad ammorbidire anche i cammini più accidentati.

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Lorenzo Mancosu

Editor-in-Chief

Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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