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Stateless - recensione

La giustizia vera può essere asettica?

Siamo ricchi, siamo felici, siamo puliti, belli: siamo bianchi. Da ogni parte del mondo, per portarci via qualcosa, per "sporcarci", inquinarci, arriva gente da altre parti del mondo, che è povera, disperata, brutta, con la pelle di un altro colore. Come fare per difendersi?

Ogni ricco e felice paese bianco si è inventato i suoi sistemi, facendo spesso pessime figure davanti ad altri paesi che però a loro volta non muovono un dito per migliorare la situazione.

L'Australia è lontana, lontana da Europa e Stati Uniti, e di come si comportano loro con gli immigrati non si sapeva molto finché alcuni casi hanno portato all'attenzione del resto del mondo le loro tattiche.

Che vanno dal respingere con durezza per noi inimmaginabile le barche dei naufraghi, tenendole al largo fra le onde del poco amichevole oceano Pacifico (nella speranza che tornino indietro o, forse, anneghino), alla detenzione di quelli che riescono a toccare le coste e si lasciano catturare, con l'imposizione di un iter burocratico così lungo e impossibile da tramutare gli immigrati in detenuti a vita (nella speranza che accettino di essere rimandati indietro).

Cover image for YouTube videoStateless | Official Trailer

La diva australiana Cate Blanchett ha scritto Stateless insieme a Tony Ayres e Elise McCredle, una serie in cui si parla di questo fenomeno, ed è autorizzata a farlo in quanto si tratta del suo paese, di cui ben conosce la situazione. Ma non si pensi a un pamphlet socio/politico, che avrebbe avuto forma e gradimento diversi.

L'interesse della serie sta nel modo con cui l'argomento viene svolto, che parte dalle storie di un gruppetto di personaggi, di diversa provenienza, con diverse situazioni. E mentre le svolge, porta lo spettatore a riflettere, a interrogarsi, a formulare un giudizio che non sembrava richiesto.

Anche perché (diciamocelo), messi male come siamo, potremmo stufarci di essere continuamente tirati per la giacchetta nel nome dei vari diseredati del pianeta. E invece il messaggio colpisce al cuore, emerge con indiscutibile chiarezza facendo dimenticare la fiction delle varie vicende personali, alcune non particolarmente originali, una in particolare un po' forzata, anche se plausibile.

Ma non ci sono solo le terribili situazioni dei migranti, c'è anche lo stato in cui versano gli abitanti della zona dove vanno a finire, dove l'economia depressa fa diventare un miraggio appetibile un atroce lavoro come quello della guardia del campo, perché fornisce uno stipendio con cui poter fornire alla propria famiglia una vita migliore.

Immigrati buoni o cattivi: come fidarsi?

A patto però di calare una barriera impermeabile fra se stessi e i "prigionieri", fra i propri principi morali e la necessità di un lavoro retribuito, con i soliti benefit di contorno fra cui l'assicurazione sanitaria. Non stanno però meglio nemmeno i responsabili, quelli con gli stipendi più alti, non tanto quelli del Governo che è lontano e atterra e riparte in questi luoghi solo per propaganda, ma i gradi intermedi, messi lì a cavare dal fuoco patate bollentissime, che devastano anche le vite dei responsabili del campo, la direttrice e i capi delle guardie addette a mantenere l'ordine.

È spaventosa la visione dei campi, angoscianti quadrilateri di baracchette a cingere una specie di aia centrale, divisa fra uomini e donne, e intorno il nulla di una zona già desertica, dove una fuga avrebbe esiti mortali.

La narrazione sceglie alcuni personaggi, lungo le cui vicende arriva a comunicare quanto è intenzione dire. C'è Ameer, un profugo dall'Afghanistan in cerca di un posto migliore per la sua famiglia, afflitto da una serie di tragedie inimmaginabili. Cam invece è un uomo del posto che accetta l'impiego nel centro per portare a casa uno stipendio decente per i suoi cari, che cerca disperatamente di non perdere la sua umanità, quella che gli viene chiesto di strangolare ogni giorno nel contatto con i detenuti.

Sofie è una donna, australiana e di buona famiglia ma mentalmente instabile, che si trova rinchiusa anche lei nella struttura. Sofie è cittadina australiana ma disturbata, forse bipolare, comunque fragile e vulnerabile, che nel tentativo di sottrarsi a un ambiente che l'ha profondamente ferita, essendosi privata dei documenti finisce reclusa nel centro, anche lei "in attesa di identificazione".

La libertà può essere un miraggio per chiunque.

Poi ci sono il capo delle guardie, dipendente di una ditta esterna che lavora su appalto, e la direttrice del campo, mandata dal Ministero a dare una regolata al posto, che sembra troppo lassista (e viene da ridere amaramente). L'insieme di vicende in cui sono coinvolti protagonisti è plausibile e valido è il contorno dei diversi personaggi (molti noti attori australiani fra gli interpreti), per trattare un problema irrisolvibile per qualunque Nazione.

Sofie è interpretata da Yvonne Strahovski, nella quale gli appassionati di Handmaid's Tale riconosceranno la spietata Serena. Come dicevamo, è il suo personaggio e il segmento a lei dedicato che può sembrare il più forzato, ma è finalizzato a mostrare come in certi casi si possa desiderare di fuggire da quel paradiso di privilegi, che tanti invece ambiscono conseguire.

Ameer è Fayssal Bazzi, attore australiano ma dalle origini mediorientali. La devastata guardia Cam è interpretata da Jai Courtney, attore visto in qualche action (Alita, Suicide Squad, Terminator Genisys), che qui quanto a recitazione è messo in grado di dare di più. La sofferente direttrice del campo è Asher Keddie e il capo delle guardie è Darren Gilshenan, già visto nella serie Harrow.

La stessa Blanchett e il noto Dominic West compaiono come ambigua coppia che gestisce una specie di setta in cui incappa la già danneggiata Sofie, che per colpa loro precipiterà sempre più indietro nel suo disturbo e per una serie di fortunose circostanze finirà da cittadina australiana a essere detenuta nella stessa struttura dei "non aventi diritto".

Legge e ordine, senza farsi troppe domande.

Veri malvagi non ce ne sono se non una delle guardie, una donna mascolina impegnata a dimostrare di "averlo più lungo" dei colleghi maschi. Gli immigrati cercano di sopravvivere, mentono per paura o per necessità, tentano vane azioni, qualche fuga fallimentare, provando a far uscire notizie dal centro, in modo da avere un po' di rilievo sui media. In generale trionfa la disperazione. Tutti gli altri però, i bianchi, i privilegiati, i ricchi e fortunati, hanno anche loro le vite rovinate dal loro mestiere.

Perché non c'è niente di definito nelle situazioni su cui sono chiamati a decidere, con i destini di gente di cui non sanno nulla nelle loro mani. Il sistema sembra impeccabile, anche nel tentativo sacrosanto di scremare la massa di disgraziati, eliminando i soggetti negativi se non proprio pericolosi. Quanto delle vite raccontate in lingue diverse, da gente terrorizzata può però essere racchiuso in una cartelletta?

Non si sa come finiranno alcuni dei personaggi ma la fine di almeno una di loro lascia aperto un minimo spiraglio di speranza: dopo dolori e lutti infiniti, tanti non avranno accesso a un destino migliore e l'ingiustizia trionferà.

Ma se anche solo uno di loro troverà un futuro migliore, forse tutti quei dolori avranno una piccola compensazione. La Giustizia con maiuscola non è da noi, bisogna accontentarsi di piccole dosi.

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A proposito dell'autore

Giuliana Molteni

Contributor

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