Skip to main content
Se clicchi sul link ed completi l'acquisto potremmo ricevere una commissione. Leggi la nostra policy editoriale.

Quella volta che Atari seppellì nel deserto i giochi invenduti - articolo

La grande crisi del videogioco del 1983: ET e la tomba di Atari.

La seconda metà degli anni '70 ha posto un focus cruciale nella storia del videogame, aprendo ad innovazioni seminali, capaci di evolvere profondamente il medium e di posare le fondamenta su cui si edificano pressoché tutti i videogiochi moderni.

Sono gli anni della seconda generazione di console, di Fairchild Channel F, Atari 2600 e 5200, Intellivision. Sono gli anni delle prime cartucce programmabili, vera e propria rivoluzione non soltanto per gli addetti ai lavori, ma anche per l'utenza. Sono i primi passi verso una fruizione di più ampio respiro, che non lega più indissolubilmente l'hardware al software.

Si può finalmente lavorare alla programmazione anche successivamente rispetto al rilascio sul mercato di una piattaforma, ideata e costruita, prima, molto spesso per il consumo specifico di un singolo software. Sono lampanti l'impatto e l'importanza di un simile cambiamento, reso possibile, principalmente, dalla nuova tecnologia dei microprocessori.

Adventure fu uno dei primi videogiochi della storia ad abbracciare il concetto di progressione.

Sono anche gli anni in cui si genera l'embrione del concetto di IA; in cui il giocatore non si trova più a sfidare sé stesso o un compagno umano, ma vede un'entità computerizzata senziente, in grado di metterlo in difficoltà. Adventure per Atari 2600 - capostipite degli easter egg e baluardo del concetto di 'segreto', oggi presente in quasi ogni produzione - mette il giocatore di fronte ai primi puzzle della storia: chiavi da recuperare per muoversi tra diverse fortezze, con dei draghi che ostacolano il giocatore restandogli alle calcagna.

Se dovessimo collocare temporalmente la nascita del single player, e di diversi altri concetti di genere per come li intendiamo ancora oggi, non potremmo non fare appello a questi anni. Il videogioco, qui, si apre alla sua tassonomia. Nascono esperienze nuove, varie e meno germinali, seppur strutturalmente ancora molto semplici. Si delineano i tratti del primo character design, i giochi accolgono più schermate e nasce persino il concetto di level design, rimasto sopito nella glabra essenzialità dell'offerta che i primi software erano in grado di offrire.

Questa rivoluzione di uno dei settori più in espansione dell'industry dell'intrattenimento genera un sostanzioso incremento degli investimenti e dell'offerta. Il mercato si popola in fretta, e nel giro di sei anni su piazza ci sono ben quindici console. Nuove aziende si affacciano alla finestra del business dei videogiochi: Bally con il suo Astrocade, Emerson offre l'Arcadia 2001, il ColecoVision tenta quel guizzo per staccare le concorrenti con il suo avvenirismo tecnico, e Vectrex commercializza per la prima volta uno schermo in bundle con la macchina.

L'inflazione è dietro l'angolo, e la golden age del videogioco è assai effimera e fuggevole. Uno degli scotti più grandi lo paga certamente Atari, in una vicenda che, da leggere e raccontare, ha quasi dell'incredibile.

Atari 2600, una delle console di punta della seconda generazione.

La pletora di produzioni simili fra loro che avvolgono presto il mercato intona una crisi che si concretizzerà, di fatto, nel 1983. Se l'insuccesso dei titoli cosiddetti third party finisce per risultare piuttosto ovvio, la vera sorpresa è il fallimento commerciale persino di quelle produzioni di punta che hanno fatto registrare un successo incondizionato, in quei tempi.

L'icona degli anni Ottanta Pac-Man rappresenta una delle più limpide affermazioni dell'industria arcade del tempo. L'intuizione di Atari pare, al contempo, tanto semplice quanto geniale: bissare il successo del ghiotto divoratore giallo di palline portandolo nelle case di tutti, tramite una versione per Atari 2600. L'ottimismo è smisurato, e viene commissionata una produzione folle di cartucce, 12 milioni, a fronte di una base installata di 10 milioni di unità della piattaforma.

La cartuccia del leggendario ET  per Atari 2600. Una mole copiose di esse è rimasta sopita nel sottosuolo per quasi 30 anni, in una contea del New Mexico.

Le limitazioni hardware della macchina, sensibilmente meno prestante dei cabinati arcade che potevano usufruire di CPU con una potenza di calcolo doppia, porta la versione casalinga dell'originale titolo Namco a fare i conti con pesanti rivisitazioni tecniche e stilistiche, le quali contribuiscono ad una sua distribuzione appena discreta. Non basta una versione del titolo ad accompagnare il lancio di Atari 5200 a risollevare quello che, economicamente e non solo, si rivela un flop a tutti gli effetti.

Il colpo di grazia, tuttavia, non è ancora servito. L'ampia diffusione delle piattaforme Atari e vendite tutto sommato accettabili, seppur ben lontane dalle 12 milioni di unità stimate, scongiurano il tracollo definitivo dell'azienda.

Sorge un nuovo Sole: un giovane Steven Spielberg ha appena centrato un successo clamoroso con il suo ultimo film, E.T L'extra-terrestre. Il riscontro estremamente positivo che la produzione ha raccolto ed il suo apprezzamento nelle famiglie e nei bambini porta Atari a decidere di cimentarsi in una vera impresa: regalare a costoro, entro l'anno, un'esperienza interattiva col nome del loro nuovo idolo in copertina.

Dall'estate dell'82 Howard Scott Warshaw, sviluppatore incaricato dall'azienda, lavora assiduamente al progetto, compiendo il miracolo. A Natale E.T. è sugli scaffali e arriva nelle case di molti, ma i numeri ragguardevoli rappresentano l'ennesima, beffarda illusione. Spinti dal nome del marchio, in molti si sono riversati ad accaparrarsi una copia del titolo, che si rivela tuttavia presto non adeguato al suo target di maggiori acquirenti.

L'avventura ideata e costruita da Warshaw è poco intuitiva, estremamente metaforica nella sua narrazione, con pochi riferimenti diretti ed espliciti alla vicenda della pellicola cinematografica, e di conseguenza poco adatta al pubblico estremamente giovane per cui è stata pensata. Le copie tornano in negozio, la produzione si arresta ma tardivamente, e restano una moltitudine di cartucce invendute. La salvezza dell'azienda di New York, invocata dal progetto, vacilla. Le perdite si portano ad oltre mezzo miliardo di dollari.

Abituati ai tecnicismi odierni potrebbero sembrare inezie, ma le limitazioni della versione console rispetto a quelle dei cabinati arcade di Pac-Man erano considerevoli, a quei tempi.

Atari decide di seppellire, letteralmente, la mole copiosa di merce invenduta, e con essa gli ultimi sprazzi del suo eccessivo e smodato anelito. Grossi camion cargo vengono spediti ad Alamogordo, in New Mexico. Il serrato riserbo che avvolge l'avvenimento si incrina sul primo vociare, eppure non arriva nessuna conferma sino al 2014, anno in cui alcuni scavi archeologici in zona riportano alla luce le cartucce in uno stato di conservazione ragguardevole.

Per oltre un trentennio l'accaduto è rimasto avvolto nel mistero, assumendo i tratti di una vera e propria leggenda. Tratti che, ancora oggi e al netto delle conferme, probabilmente custodisce.

Perché Atari è stata sicuramente il capro espiatorio di una bolla che stava ben prima eccedendo le possibilità ed i gusti di un mercato nuovo, ballerino e fragile. Un mercato ed un panorama che si riprenderanno in grande stile negli anni successivi, sino a giungere all'eclettismo ed alla forza dei giorni nostri.

La tomba dell'azienda di Bushnell, tuttavia, è pedagogica. Ci racconta sicuramente di un'ingenuità imprenditoriale, ma ci racconta anche della giovinezza e della fragilità di un medium unico e peculiare, nella gioia e nel dolore.