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Google Stadia è già in crisi - editoriale

Un'offerta commerciale insensata e un management che non ha fatto la differenza.

Marzo 2019. Google tiene una presentazione alla Game Developers Conference per presentare la sua rivoluzione del mondo videoludico: il suo nome è Stadia. Viene annunciato un servizio in streaming come altri (Gaikai, OnLive, PlayStation Now) avevano mai osato prima. Questa volta, assicurava Google, le ambizioni erano molto più alte: grafica 4K, grande supporto delle terze parti e continua evoluzione tecnologica. Febbraio 2021: Google annuncia che smetterà di produrre videogiochi.

In meno di due anni Google ha drasticamente ridimensionato le ambizioni di quel progetto che, nelle sue mire, doveva rappresentare un cambio di paradigma. Il vicepresidente di Stadia, Phil Harrison, non ci ha girato attorno: produrre giochi è difficile e richiede anni di investimenti. Motivo per cui, ha detto il dirigente, i costi stavano crescendo "in modo esponenziale": evidentemente troppo per i calcoli che Google aveva fatto.

Qui sorge il nostro primo dubbio: Google (che fa parte di Alphabet, gruppo che vale 1.280 miliardi di dollari) non aveva idea di ciò prima di annunciare Stadia? Aver incluso veterani del settore come Phil Harrison e Jade Raymond, che ha guidato Stadia Games and Entertainment e ora se ne andrà da Google, a cosa è servito?

Fatto sta che tale constatazione ha ora spinto Google a sciogliere gli studi interni (uno a Montreal e uno a Los Angeles) per puntare esclusivamente sul consolidamento tecnologico di Stadia e sulle collaborazioni con le terze parti. Il servizio rimarrà attivo, sia chiaro, eppure è difficile non intravedere le prime crepe nel muro. E dietro di esse s'intravvede il tristemente celebre cimitero di Google (dove dimorano tutti i servizi chiusi dalla società, come il social network Google+). Non che le crepe, proseguendo con la metafora, non si vedessero già, anzi.

Stadia è stato annunciato a marzo 2019. A oggi non sappiamo quanti utenti lo usano poiché Google non vuole rivelare alcun dato utile.

Innanzitutto l'offerta commerciale di Stadia è sempre stata un controversa: i titoli vengono venduti a prezzo pieno ma per giocarci in 4K HDR serve pagare un abbonamento separato (cioè Stadia Pro, che costa 9 euro al mese). Poi c'è stato il ridimensionamento dei dispositivi su cui giocare a Stadia: a marzo 2019 Google prometteva un'esperienza facile e veloce, prima di precisare che al lancio serviva per forza uno smartphone Pixel, che iOS non era supportato e che per giocare su TV serviva una Chromecast Ultra. Il risultato è che anziché aumentare, l'attesa per il lancio del servizio è andata costantemente diminuendo.

Nel tempo questa situazione è migliorata: ora Stadia può essere fruito su tanti smartphone Android e, da poco, anche su iOS tramite il browser. Rimane la pecca dell'esperienza TV e continua a servire una Chromecast Ultra, sebbene alcuni futuri smart TV LG integreranno l'applicazione.

Infine c'è la mancanza di fiducia che Google stessa sta dimostrando. Mentre gli utenti PS4 e Xbox One lamentavano grossi problemi a giocare Cyberpunk 2077, su Stadia il gioco è stato fruibile fin da subito con una qualità tale da far dimenticare che il gioco non è elaborato in locale.

Cyberpunk 2077 ha funzionato bene fin dal lancio, provocando un'impennata del traffico su Stadia. Eppure Google ne non ha approfittato per capitalizzare questo potenziale rilancio.

Ma anziché battere il ferro finché è caldo, meno di due mesi dopo il debutto di Cyberpunk 2077 su Stadia, Google ha annunciato che farà un passo indietro per concentrarsi su altri fronti. Naturalmente, altri produttori potranno continuare a distribuire i propri giochi su Stadia ma perché crederci se persino il proprietario decide di ridurre il proprio impegno nonostante il pubblico abbia dato un segnale di vita?

Cosa succederebbe a Switch, a PlayStation 5 o a Xbox, se Nintendo, Sony o Microsoft decidessero che non vale più la pena creare giochi? Esatto: ci si aspetterebbe un contraccolpo.

Risulta quindi ancora più rumorosa la decisione di Google, la cui colpa forse è di aver sopravvalutato le due figure chiave a cui ha affidato il progetto, ossia Phil Harrison e Jade Raymond. Quest'ultima è stata il volto della serie di Assassin's Creed ai suoi albori (sebbene la mente creativa sia stata quella di Patrice Désilets). Dopo aver lasciato Ubisoft, Raymond è approdata nel 2015 in Electronic Arts per guidare il neonato studio Motive. Lo sviluppatore ha realizzato la campagna a giocatore singolo di Star Wars: Battlefront 2, con un risultato decisamente trascurabile. La Raymond si è poi unita a Google a marzo 2019.

Per quel che riguarda Harrison, è noto soprattutto per aver fatto parte della dirigenza di Sony Computer Entertainment da metà degli anni 90 fino al 2008, vivendo le prime tre generazioni di PlayStation. Dopo tale esperienza, Harrison ha rimbalzato fra varie società - Atari, Gaikai, Microsoft e infine Google - senza in realtà apportare un contributo tangibile.

A Phil Harrison (in foto) e Jade Raymond è stato affidato il compito di guidare Stadia. A guardare i risultati, diremmo che hanno fallito.

È difficile stabilire con precisione cosa non abbia funzionato in Google nella produzione di videogiochi. È stata probabilmente una commistione degli elementi sopracitati: costi imprevisti, impegno sottovalutato e scarsi risultati nel breve periodo che hanno fatto storcere il naso ai vertici.

Una cosa è certa: in meno di due anni Google è passata dal promettere grandi esclusive basate sul cloud a dismettere totalmente la sua divisione videoludica. Non certo un bel risultato.

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Massimiliano Di Marco

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Aspetta la pensione per recuperare la libreria di giochi di Steam. Critica qualsiasi cosa si muova, soprattutto se videoludica, e gode alla vista di Super Mario e Batman.

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