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Videogiochi, violenza e amore - editoriale

Cosa manca al videogioco per diventare un medium completo?

La rapidissima evoluzione che ha caratterizzato il medium del videogioco ha delineato i contorni di una industria creativa che, in tempi brevissimi rispetto ad altre forme d'espressione, si è gettata con foga all'inseguimento del riconoscimento della propria dignità artistica.

Siamo partiti da Pong e siamo arrivati a The Last of Us Parte 2 nel giro di una quarantina d'anni, bruciando numerose tappe e conoscendo al tempo stesso una notevole impennata nello sviluppo di tecnologie relative al potenziamento dei supporti. Basti pensare alla differenza che passa fra un film dei primi anni 2000 e un kolossal contemporaneo rispetto a quella che intercorre fra un videogioco dell'epoca e un titolo current-gen.

Ciò che cambia di rado, e che se cambia lo fa in maniera decisamente più sottile e compassata, è invece l'ispirazione creativa alla base dei progetti. Se è già di per sé complesso rivoluzionare la fantasia che delinea il concept delle opere videoludiche, lo è ancor di più nel contesto della nostra contemporaneità, in un periodo storico in cui il mercato ha raggiunto proporzioni tali da rendere quantomeno rischiose le deviazioni dai binari preferiti dai consumatori.

Al giorno d'oggi sarebbe molto semplice sostenere che non esistano barriere pronte a separare il mondo dei videogiochi da quello del cinema, della letteratura, dell'animazione o del fumetto. E chiunque sia un videogiocatore appassionato non esiterebbe un istante a difendere le proprie esperienze preferite, equiparando l'impatto tecnico e narrativo di alcune opere a quello, ad esempio, che sostiene una qualsiasi pellicola vincitrice del Sundance Festival.

The Last of Us Parte 2 condanna la violenza raccontando la violenza, ed è indubbiamente giusto che faccia così.

Ma a ben vedere esistono delle costanti tutt'ora inviolate che mantengono aperta una netta spaccatura fra la scelta di raccontarsi attraverso un videogioco e quella di farlo adottando le altre formule espressive.

Anche se non costituisce in alcun modo una rappresentazione totalmente inclusiva della produzione del medium, l'elenco dei titoli vincitori del premio per il Game of the Year suggerisce in modo piuttosto eloquente una certa tendenza. Fra titoli come God of War, il sopracitato The Last of Us Parte 2, Dragon Age: Inquisition e chi più ne ha più ne metta, non esiste un singolo progetto che sia riuscito a intascare la statuetta più ambita esulando dall'adozione di meccaniche "violente".

È evidente che la violenza e l'azione siano ormai parte integrante della cultura del videogioco, e che lo siano divenute a seguito dell'evoluzione rapida e atipica che ha caratterizzato il settore, ma l'importante è non assumere che questo genere di analisi sia frutto di una visione moralistica. Non si tratta di un'asserzione del genere "i videogiochi sono tutti violenti", quando più di una domanda del tipo "perché tutti i grandi videogiochi, e soprattutto i kolossal, sono violenti?".

Perché un film come Titanic, che fa della storia d'amore la sua pietra fondante, riesce addirittura a imporsi per anni come il più grande successo al botteghino mentre non ci sono videogiochi capaci di compiere la medesima impresa nel proprio settore di riferimento?

Esistono videogiochi come To The Moon che dimostrano ampiamente quanto la visione del medium sia ancora ristretta.

La tentazione di cercare una risposta nella sociologia e nell'evoluzione del medium è forte, ma bisogna considerare che le dimensioni e le diversità del pubblico sono ormai talmente ragguardevoli da suggerire la necessità di superare tale concezione. Allo stesso modo, esistono dozzine di esempi "virtuosi" emersi dal sottobosco del mercato che sono riusciti, non senza fatica, a spezzare alcuni dei dogmi legati alle meccaniche violente.

Certo, un videogioco basato su enigmi come potrebbe essere un The Witness di Jonathan Blow non ha necessità di mettere radici in formule basate su attacco e difesa, ma fa invece parte del secondo grande ramo vincente del settore, ovvero quello puramente legato al divertissement. È decisamente più difficile, invece, imbattersi in prodotti volenterosi di scardinare entrambi i cliché al fine di arricchire la portata creativa del medium.

Opere come To The Moon di Freebird Games, che ancora oggi rappresenta un rarissimo esemplare nella minuscola nicchia delle software-house più ambiziose. Perché persino dove si scardinano i preconcetti, come ad esempio sulle sponde di Return of the Obra Dinn, o in Papers Please di Lucas Pope, resta ancora un focus più o meno consapevole sull'esigenza di mantenere l'interattività quale elemento chiave del videogioco.

Come se mancasse la presa di visione del fatto che tutto possa esser videogioco, errore in cui è caduto più volte e non senza colpa anche il sottoscritto, dallo storytelling nudo e crudo alla relazione amorosa, dall'indagine psicologica al bistrattato walking simulator.

Final Fantasy X è probabilmente il blockbuster più vicino alla classica storia d'amore romantica.

Analizzando il ruolo assunto dal JRPG agli albori delle prime generazioni di home console è inevitabile rendersi conto del contributo fornito dal genere alla netta deviazione imboccata dagli autori verso le formule narrative. Lungo il percorso ci si imbatte in Final Fantasy X di Squaresoft, che probabilmente ad oggi rappresenta l'unico blockbuster capace di vendere oltre 10 milioni di copie ancorando il soggetto a quella che in fin dei conti è una classicissima storia d'amore.

Ma incidentalmente accade che il mondo di Spira sia popolato di mostri da abbattere a colpi di spadone e magia nera, trasformando quello che era il candidato più papabile al ruolo di "Titanic dei videogiochi" in un semplice apostrofo rosa di storytelling nel mezzo di un universo ancora radicato nel puro e semplice combattimento.

Di contro accade che emergano inaspettati colossi come Animal Crossing: New Horizons, capaci di coinvolgere milioni di appassionati in un vortice creativo più che mai lontano dalla violenza; obiettivo che tuttavia raggiungono troppo spesso senza caricarsi sulle spalle il peso di una narrativa complessa e sfaccettata, quella stessa narrativa che in tempi recenti sta sì toccando vette altissime, ma lo sta facendo senza modificare in alcun modo il tradizionale approccio meccanico di tipo violento.

Inutile dire che questo sintomo sia legato a doppio filo con l'evoluzione del mercato di prima fascia, una spinta che ha portato ad esempio un genere come quello delle avventure grafiche, che più d'ogni altro poteva contare su strumenti adatti a risolvere il dilemma, ai confini dell'interesse del pubblico di massa.

Undertale di Toby Fox ha costruito la sua intera struttura meta-narrativa attorno alla violenza nel videogioco.

Come sempre più spesso ci troviamo a dover affermare, il cambiamento è nato e sta maturando unicamente nei confini dello sviluppo indipendente, o meglio, nelle menti di quegli autori che mettono la filosofia creativa davanti ad esigenze più concrete. La nota positiva, in questo senso, è che i publisher di videogiochi AAA, ma soprattutto i platform owner, stanno guardando con frequenza sempre crescente ai successi del sottobosco indipendente.

Se PS5 ha inaugurato il suo primo anno di vita finanziando un progetto come il Returnal di Housemarque, che deve tantissimo a opere emerse dal cono d'ombra del mercato consumer, è possibile che lo stesso destino tocchi un giorno a produzioni che prendano quanto di buono fatto attraverso To The Moon, Outer Wilds, Florence o altri titoli passati evidentemente sottotraccia.

Non si può ignorare, in questo senso, il sottile fil rouge che lega il capolavoro di Mobius Digital all'imminente Deathloop per PlayStation 5, considerando che nel caso specifico quello che era un innocuo alieno esploratore ha assunto le forme di un killer impegnato in una vedetta personale, caratteristica che, per carità, incarna perfettamente la cifra stilistica di Arkane Studios.

Il dilemma morale della violenza nei videogiochi è stato affrontato anche attraverso titoli che per primi hanno voluto trainare tutto il peso della delicata discussione facendone l'elemento cardine della propria esistenza, cosa che è accaduta nell'Undertale di Toby Fox, ma al netto della gradevole ventata d'aria fresca il giorno che vedremo un videogioco di rottura impugnare lo scettro del GOTY sembra ancora molto lontano, per non dire quasi inimmaginabile.

Super Mario saltava sui goomba, Pac-Man mangiava fantasmi, Gordon Freeman sparava agli alieni, la morte è una meccanica insita nel 90% della produzione videoludica, e su questo non c'è niente da ridire, non c'è nulla di cui lamentarsi. Ma se il medium vuole realmente colmare gli ultimi tasselli che lo separano dalla completezza dei mosaici messi in scena in altri contesti creativi, deve prepararsi per poter compiere al meglio anche questo balzo.

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Lorenzo Mancosu

Editor-in-Chief

Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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