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Candyman Recensione: L'uomo “nero” di che colore ha la pelle?

Mai ripetere troppo volte certi nomi.

Chi era Daniel Robitaille? A distanza di quasi trent'anni dal film Candyman, uscito nel 1992, tratto dl racconto The Forbidden di Clive Barker, solo un vero appassionato dell'horror saprebbe dare una risposta.

Ai tempi dello schiavismo, Daniel era un nero delle piantagioni, bravo però a disegnare e quindi incaricato dal suo padrone di ritrarre la sua adorata figlia. Fra lei e lo schiavo era però sbocciato un amore da cui sarebbe nato anche un figlio. Il padre furibondo aveva incaricato una banda di suoi scagnozzi di ammazzare Daniel nel peggiore dei modi. E così era stato fatto. Nel primo film la sua storia veniva riscoperta dalla ricercatrice Helen (allora interpretata da Virginia Madsen), che finiva malissimo nel suo incontro con lo spirito dell'uomo, in cerca di vendetta nei luoghi che avevano visto verificarsi il suo martirio.

Dopo due sequel assai commerciali e dimenticabili (1995 e 1999), in cui si banalizzava un personaggio diverso dai vari Freddy Kruger o Michael Meyers, Candyman era stato dimenticato. Facile comprendere come ai nostri giorni a lui si sia interessato Jordan Peele, regista/produttore assai politicizzato, per una rilettura più aderente ai nostri tempi, dove di cose pessime fra bianchi e neri continuano a succederne. Nia DaCosta dirige e scrive la sceneggiatura insieme a Peele e Win Rosenfeld.

Il protagonista Yahya Abdul-Mateen II, che è stato Cal Abar in Watchmen.

Il nuovo Candyman in apertura ci riporta alla Chicago del 1977 ai Cabrini-Green, quartiere nato come progetto residenziale per i meno abbienti, abbandonato però al degrado e poi parzialmente abbattuto per fare posto a nuove abitazioni, in un processo di gentrificazione al quale sembrano indifferenti anche soggetti che un tempo ne sarebbero stati vittima. Infatti i protagonisti della storia sono una bella e innamorata coppia di creativi di colore, lui pittore, lei gallerista, che delle ingiustizie sociali sembrano interessarsi poco.

Lui è in crisi artistica, lei aiuta come può, tutti e due sono ambiziosi e proiettati verso un futuro che fa dimenticare loro un passato mai davvero sepolto. Hanno il solito giro di amici ricchi e un po' viziati, tutta gente che vive come se il colore della pelle non fosse più un problema. Ma un triste giorno Anthony, in cerca d'ispirazione sull'onda di una vecchia leggenda dell'orrore che gli è stata raccontata, visita il quartiere e resta coinvolto in quella che leggenda non è, perché è una tragica storia che si prolunga nei secoli.

Non importa che nel racconto di un residente si dica che Candyman era un senza tetto sospettato ingiustamente di adescare ragazzi e per questo linciato dalla Polizia, e non più Daniel. Soprusi e ingiustizie non sono mai finiti, Candyman non è più uno solo, ma è un insieme di tutte le vittime di orribili soprusi subiti dai bianchi dai tempi della schiavitù, perché la sofferenza dura per sempre.

Cover image for YouTube videoCandyman - Trailer italiano Ufficiale [HD]

L'imprudente protagonista è Yahya Abdul-Mateen II, che era Manta in Aquaman ma che ricordiamo come Cal Abar in Watchmen e che sarà Morpheus nel nuovo Matrix. La sua fidanzata Teyonah Parris era Monica Rambeau in Wandavision. Tony Todd, interprete originale dell'assassino con l'uncino, attore identificato con il personaggio rivestito negli altri film della serie, qui compare in modo quasi subliminale, il nuovo interprete del personaggio è Michael Hargrove.

Storie come queste si sa che non vanno mai a finir bene, ugualmente c'è spazio per qualche spunto ansiogeno, qualche discreto momento horror è giocato su specchi e riflessi, un po' di splatter non manca mai, unito alle solite crudeli e dis-umane ingiustizie. Tutta la storia è diretta emanazione del film del 1992 e, anche se ripercorsa e spiegata attraverso sequenze in animazione che si rifanno alle ombre cinesi, un ripasso del vecchio film sarebbe utile. Un accenno polemico al mondo delle gallerie d'arte, dei critici e giornalisti, lascia il tempo che trova.

Il finale alla Black Lives Matter sembra un po' forzato, come un cappello ideologico messo sopra un personaggio che forse era meglio non politicizzare più di quanto già non fosse. A spiegare la visione del film in fondo basterebbero le animazioni sui titoli di coda, che sanciscono una situazione mai più lontana di oggi dalla pacificazione fra uomini bianchi e uomini neri.

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Giuliana Molteni

Contributor

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