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Cry Macho Recensione: Clint, un ragazzino e un gallo on the road

Quando è un gallo quello che recita meglio.

Ci sono tante Americhe e nel cinema ciascuna ha avuto i suoi cantori. Clint Eastwood da anni si occupa di quella parte del paese che non ha vinto ma che rifiuta di sentirsi sconfitta. I suoi sono eroi solo per essere arrivati vivi alla vecchiaia dopo un'esistenza di lotte, di errori inflitti e subiti, di perdite e abbandoni.

In Cry Macho bastano dieci minuti per delineare storia e caratteri e tutto sembra promettere bene. Peccato che nello sviluppo successivo le promesse non vengano mantenute. Mike è un vecchio cowboy, ex campione di rodeo, che ha perso la sua amata famigliola da anni. Vive ancora nel ranch del possidente Howard, che lo tiene per rispetto e pietà.

Ma un giorno questi decide si riscuotere il suo debito e lo incarica di andare nel sempre pericoloso Messico a recuperargli un figlio adolescente mai frequentato, cresciuto con una madre che è una donnaccia di facili costumi e pure alcolizzata. Mike è così vecchio da non destare sospetti in nessuno e sembra il soggetto adatto per infiltrarsi in un ambiente rischioso come quello malavitoso del Messico di confine.

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Il vecchio cowboy con spirito zen accetta di andare incontro al suo destino, compiendo il suo dovere con coerenza e fermezza, costi quel che costi. Ma ovviamente al suo arrivo troverà una situazione diversa da quanto gli era stato descritto e diverso risulterà anche essere il movente dell'amico. E Rafael, il ragazzo da recuperare si rivelerà anche lui un caso umano differente dal previsto.

Il vecchiaccio burbero e il ragazzetto che fa il duro si troveranno coinvolti in una specie di momentanea alleanza, che si cementerà poco alla volta durante una fuga improvvisata. Così il film prende quella piega on the road, con tutti gli stereotipi che una storia di questo genere può inanellare, che permetterà al ruvido vecchio e all'arrogante adolescente di imparare a conoscersi, mentre Mike si avvia a diventare per lui una figura paterna di gran lunga migliore di quella vera.

A mano a mano che la storia si srotola, si avverte però la costante forzatura nella costruzione degli eventi, mentre faticosamente si districa la matassa della trama, della quale si avverte in continuazione l'artificiosità, l'improbabilità. La storia è tratta dal romanzo omonimo, scritto nel lontano 1975 da N. Richard Nash, già allora in forma di sceneggiatura, poi tramutata in romanzo e in seguito rimbalzata per anni fra varie case di produzione, con diversi possibili interpreti.

Tre generazioni di stacco, un abisso.

Sotto la regia non particolarmente ispirata di Eastwood, è approdata finalmente alla realizzazione, con la collaborazione alla scrittura di Nick Schenk (già con il regista in Gran Torino e The Mule). Eastwood sembra però limitarsi a mettere in fila una serie di scenette che portano obbligatoriamente alle svolte che servono per far procedere la storia nella direzione prevista. Che è così che in effetti vanno le cose, nelle vite e nei film, ma qui tutto è fastidiosamente avvertibile.

Qualche bellissima inquadratura non basta a salvare una storia schematica con personaggi che più di maniera non si può. Oltretutto Eduardo Minett, che interpreta Rafael, non è un attore eccelso e si sarebbe potuto trovare di meglio. Il film si chiuderà senza alcun momento davvero epico, senza alcun reale colpo di scena.

Il personaggio della madre è troppo caricato, la solita messicana di facili costumi e un po' malavitosa, con mega villa, party sfrenati e due scagnozzi ai suoi ordini. La polizia è infida e corrotta, la povera vedova presso la quale Mike e Rafael troveranno momentaneo riparo è buona e generosa a livello fiabesco, con teneri bimbetti lavoratori inclusi e pure fa gli occhi dolci all'anziano cowboy. E purtroppo anche il grande Clint Eastwood, bellissimo vecchio con una sua innegabile grazia e che era stato assai credibile nel cinico vecchiaccio di The Mule, qui è fuori ruolo, troppo fragile fisicamente per essere credibile.

Un anziano carismatico ma un po' troppo... anziano.

Per pura civetteria non rinuncia a mettersi al centro di un paio di brevi scontri fisici, capace di domare ancora un cavallo (?) e pure di suscitare interessi femminili, quando però la fragilità reale di Eastwood ormai è innegabile, con i suoi 91 anni, e rende certe azioni davvero poco plausibili.

Oltretutto il suo personaggio manca poco che imponga le mani come Padre Pio, perché cura animali feriti (assai sommariamente, va detto), doma e sussurra ai cavalli, ripara jukebox, cucina pollo fritto, balla languidamente con la bella vedova messicana e sa guidare rottami d'auto in modo spericolato.

Si può leggere in chiave autobiografica una chiosa finale su quanto sopravvalutato sia il concetto di macho (che nel film è il nome del gallo da combattimento del ragazzo, eroico più di un pitbull e ottimo attore), tipo d'uomo che vuol far vedere di avere grinta, di avere sempre tutte le risposte e quando capisci che non è vero niente, ormai è troppo tardi. Eastwood, ammesso lo sia mai stato non solo sullo schermo, se n'è accorto in tempo, peccato qualche passo falso ogni tanto, perlomeno artistico.

Un gruppetto di affetti da favola buona.

Clint Eastwood è come Woody Allen: a entrambi non piace stare senza lavorare e si scrivono o adattano storie su misura per i personaggi che sono. E come ad Allen, anche a Eastwood ogni tanto i film vengono bene, ogni tanto no. Cry Macho appartiene alla seconda categoria.