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Bodycount

Codemasters e la via alternativa agli FPS.

Quello degli sparatutto in soggettiva, come ha detto il game director di Bodycount, Andy Wilson, è un segmento di mercato che va affrontato con molta cautela e tanta creatività.

La cautela è dovuta al fatto che negli ultimi anni abbiamo assistito a prove muscolari tra i big del videoludo quali Activision ed Electronic Arts, che hanno messo in campo un'artiglieria pesante fatta di costi di sviluppo altissimi e vertiginosi investimenti di marketing, dell'ordine di centinaia di milioni di dollari.

Non ci si può rilassare neanche a volere uscire dall'ambito multipiattaforma, visto che su Xbox 360 e PS3 troviamo marchi come Halo, Killzone o Resistance, che hanno le spalle molto ben coperte.

La creatività di cui sopra diventa allora una conseguenza: se si vuole sperare di avere successo con un FPS, oggi come oggi, o si sale sul ring contro i pesi massimi o si cerca un escamotage che ci permetta di gareggiare nelle categorie minori. In tal caso, là dove non può la forza bruta, può l'ingegno, ed ecco allora giungere i Bulletstorm e i Brink del caso, che provano a sopperire attraverso l'innovazione alla mancanza di investimenti milionari.

Gli upgrade del singleplayer saranno utilizzabili anche in multiplayer.

In quest'ottica il prossimo Bodycount si propone come il più classico degli outsider, se è vero da un lato la pur storica Codemasters nulla può contro i colossi di Bobby Kotick e John Riccitiello, e che dall'altro non può neppure vantare gloriosi trascorsi nell'ambito degli FPS.

Ecco allora gli sviluppatori del Guildford Studio ragionare con un'ottica divergente, provando a proporre qualcosa di nuovo. Perché, per paradossale che possa sembrare, oggi come oggi nel mondo degli sparatutto in soggettiva, giocare sul sicuro è molto meno consigliabile che non azzardare un'innovazione.

La strada scelta da Bodycount si ispira in larga parte al controverso Black, titolo uscito nel 2006 per PS2 e Xbox e sviluppato dai Criterion. Dico controverso perché se da un lato il gioco pubblicato da EA riuscì a fare parlare di sé per le innovazioni introdotte a livello di gameplay (enfasi sulla distruttibilità degli ambienti, sul realismo delle armi e sul calcolo dell'impatto dei singoli proiettili), dall'altro non strappò alla critica che un'onesta media Metacritic di 79.

Le location di Bodycount si prospettano sufficientemente varie da rendere l'azione di gioco mai ripetitiva.

La cosa interessante, però, è che dietro quel progetto vi era un certo Stuart Black (la sua omonimia col gioco fu una delle domande più gettonate nelle interviste dell'epoca), che poi passò in Codemasters per iniziare proprio Bodycount, che si colloca quindi nell'immaginario collettivo videoludico come l'erede spirituale del succitato Black.

Purtroppo però il vulcanico game designer ha abbandonato nello scorso novembre il publisher di Dirt 3 e F1 2011 per passare alla bistrattata City Interactive, autrice di alcuni dei più brutti FPS della storia che però, complice anche l'inatteso successo di Sniper Elite, pare voler fare le cose in grande (tant'è che ha acquisito la licenza per l'Unreal Engine 3 per i suoi prossimi titoli).

Il fatto però che un game designer abbandoni un gioco a metà dell'opera non è un buon viatico, soprattutto se a quella di Black si aggiungono altre defezioni eccellenti, quali l'executive producer Tomas Gillo e il general manager dello stesso studio di Guildford, Adrian Bolton.