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Clark, la serie TV - Recensione

“Se non posso dare il meglio di me, allora darò il peggio”.

Ci sono espressioni che si usano correntemente senza saperne bene le origini. La sindrome di Stoccolma è un anomalo stato di dipendenza psicologica per cui si solidarizza, a volte ci si innamora, del nostro assalitore, che sia un rapitore o un rapinatore che ci terrà in ostaggio, colui insomma che ci ha messo in una posizione molto scomoda, contro la nostra volontà.

Pure in politica esiste questo fenomeno, quando un poveraccio si illude di stare davvero a cuore di qualche miliardario Presidente, che tuona contro le “elite” di cui ovviamente fa parte e che proteggerà ad ogni costo a spese del red neck che lo vota. Ma questo è un altro discorso, anche se il meccanismo è lo stesso. Si tratta insomma di un abbaglio collettivo, di una fascinazione indebita.

Per restare nel campo meno tragico delle rapine in banca (la soggezione nei confronti del sequestrato per fini sessuali è ben altra cosa), pensiamo a film come Quel pomeriggio di un giorno da cani oppure il recente Assedio a Silverton, storie realmente accadute in cui gli ostaggi hanno empatizzato con il sequestratore semplicemente perché avevano avuto modo di comprendere le sue motivazioni, di provare nei suoi confronti pena e solidarietà. Della cosa si è riparlato anche per la serie tv La casa di carta, con l’amore che sboccia fra un rapinatore e un’impiegata sequestrata.

Una vita a “giocare” ad acchiapparello.

Quando abbiamo però cominciato a sentir usare questa espressione? L’origine risale a una storia realmente accaduta nel 1973, a quei tempi di grande rilievo mediatico, nonostante ci fossero solo quotidiani e reti televisive a seguirla, ben prima di Internet. Del fatto si è sono occupati già diversi media, il film del 2003 Norrmalmstorg, il podcast Ciminal, il documentario svedese Clark - en rövarhistoria. Nel 2018 è uscito il film con Ethan Hawke e Noomi Rapace Rapina a Stoccolma, che ne dava una versione molto sobria. Protagonista assoluto della storia è Clark (come Clark Gable) Olofsson.

Nel 1973 Janne Olsson, un delinquente incallito appena uscito di galera, fa irruzione da solo nella Kreditbanken, storico istituto di Stoccolma, sequestra quattro dipendenti, tre donne e un uomo, chiede in cambio la liberazione del suo fraterno amico Clark Olofsson (interpretato da Bill-Pennywise- Skarsgård), altro criminale incallito pure lui, detenuto in galera. E poi soldi, auto, armi e tutte le solite cose da rapina con ostaggi.

I due troveranno pane per i suoi denti, perché la Polizia svedese, pur non avvezza a simili episodi, non intende cedere, senza stare a preoccuparsi troppo degli ostaggi. Elemento questo che avrà sicuramente influito sullo stato d’animo degli sfortunati impiegati. Dopo 130 ore di assedio, la Polizia riesce a fare irruzione e, senza spargimento di sangue, la faccenda si risolve. Nel frattempo però Olofsson è riuscito a guadagnarsi le simpatie degli ostaggi e dell’opinione pubblica, ritagliandosi il ruolo del “rapinatore buono” in opposizione al collega “cattivo”.

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Ma chi era il personaggio? Nato a Trollhattan nel 1947 nella povertà del dopoguerra da una coppia di genitori dal comportamento ben poco educativo, abbandonato a se stesso e alla strada, entra ed esce dai riformatori fin da giovanissimo, a 18 fa un’effrazione perfino nella casa dell’allora Primo Ministro, sempre circondato da una corte di delinquenti come lui.

Non è un Robin Hood e neanche Jesse James, non fa ragionamenti socio/politici, è uno totalmente deviato, ruba ai ricchi semplicemente perché può farlo (e loro se lo meritano), perché la vita lo ha fatto diventare niente di più che un teppista arrogante, un furbo manipolatore di gente ingenua (o in fondo complice), un vero mascalzone che non riesce a suscitare simpatia, anche se di grande successo con alcuni personaggi femminili (e viene da dire, peggio per loro).

Clark Olofsson, pur provando pietà per ciò che ha subito, non riesce a diventare un ribelle con cui empatizzare, nonostante le sue traumatiche origini non riesce mai a coinvolgere. Viene bassamente da pensare a quanto è costato alla sua nazione, per i danni provocati con i suoi reati, gli infiniti processi, le condanne, le evasioni, le nuove catture e i nuovi successivi reati cui mai si sottraeva dopo essere tornato in libertà. Uno di cui si sarebbe detto che era il caso di buttare la chiave.

Le donne autolesioniste alle quali piacciono i mascalzoni

Questo almeno è quanto comunica la serie tv e non si capisce se questa fosse la volontà degli autori, per il desiderio di non compiere una smaccata apologia di pessimi comportamenti, o piuttosto dipenda dallo sguardo con cui assistiamo oggi alla vicenda, reso scettico da troppi casi impuniti, da troppe ingiustizie, in una deriva verso il famoso “legge e ordine” che per anni è stato scambiato motto della destra, mentre è semplicemente ciò cui aspira qualunque cittadino medio.

Del resto la serie tv tratta malissimo la Polizia, vista come un mucchio di imbecilli, di inetti, vittime spesso della loro stupidità, cambiando anche la verità storica, e stesso trattamento subisce il poliziotto Tommy Lindström, che starà alle calcagna di Clark per anni, costantemente umiliato dalla sceneggiatura anche nell’aspetto, diventando così paradossalmente l’unico con il quale ci sente di solidarizzare, sancendo così il fallimento della narrazione.

Cosa non riesce a funzionare in questa messa in scena grottesca e surreale? La serie si dichiara “basata su verità e bugie” e infatti è tratta dalla biografia dello stesso Olofsson, oltre che da vario materiale documentaristico. Non si voleva fare un docu-film pensando non fosse abbastanza interessante, fra le mille ricostruzioni di eventi criminosi da cui siamo bombardati nei vari streaming. E neppure la drammatica rappresentazione della vita di un disgraziato cui il Sistema non ha mai dato tregua, incapace di proteggerlo nel momento giusto, pronta però a castigarlo immediatamente dopo. Ma il tono non trova mai il giusto equilibrio.

Quei bravi ragazzi.

Anche se è l’episodio conclusivo a dare il tono della narrazione, il protagonista e i suoi amici mai riescono ad attirare la minima comprensione, nonostante la descrizione ugualmente priva di simpatia del “mondo di fuori”, gli altezzosi ricconi, i politici indifferenti, i borghesi ben viventi, i poliziotti ottusi, il sistema giudiziario severo ma non in modo costruttivo.

Si vuol forse dire che da una parte della barricata, i “civili” sono tutti degli imbecilli e vince solo chi è più furbo, che in fondo è il messaggio che si è imposto in questi anni? Oppure, in fretta e furia, si cerca di appiccicare a Clark tardivamente l’etichetta della vittima, incapace di non diventare il carnefice di se stesso? Temiamo che di questo ritratto Clark, che oggi a 75 anni vive da uomo libero in Svezia, non sarà in fondo insoddisfatto e questo un po’ ci spiace.