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Come la difficoltà nei videogiochi è diventata un fenomeno di scontro culturale - editoriale

La cruda realtà.

Negli anni '90 un gruppo di designer giapponesi di videogiochi si è trovato ad affrontare uno strano problema. La maggior parte dei giochi, a quel tempo, erano dotati di tre livelli di difficoltà crescente, dal “Facile” al “Normale” per arrivare al “Difficile”. In questo modo, un giocatore poteva adattare la sfida imposta dal gioco alle proprie abilità, consentendo agli sviluppatori di estendere il pubblico potenziale del gioco dai talentuosi ai meno dotati, con in mezzo tutta la massa di persone a metà. I designer delle software house di Toaplan, Cave e Psikyo specializzati in shoot 'em up, tuttavia, volevano lavorare con una scala di difficoltà migliore e decisamente più ampia. Perciò, i loro giochi iniziarono ad essere dotati di sei o più livelli di difficoltà. Nasceva però un problema: che nome dare a queste nuove modalità?

Cominciò così una vivace, seppur breve, tradizione videoludica in cui i designer competevano tra loro per trovare i termini più divertenti e spesso anche i più dispregiativi per i livelli di difficoltà più bassi. I designer di DonPachi hanno scelto lo stucchevole “Facilino” per le configurazioni più semplici del loro gioco, mentre gli esperti sviluppatori di Garegga hanno concesso ai loro giocatori il dignitoso “Allenamento”. Psikyo invece è stata decisamente più crudele. Le opzioni di Gunbird 2 infatti, in una scala in discesa sempre più offensiva, passano da “Facile” a “Molto Facile” a “Bambino” per arrivare a “Neonato”. Strikers 1945, lo sparatutto a tema seconda guerra mondiale, da poco uscito di nuovo per Switch, è persino più volgare: il suo livello di difficoltà più basso lo hanno nominato, in modo piuttosto offensivo, “Scimmia”.

Questi termini sono carichi di spiritoso scherno che va ad oscurare la loro ragione d'essere. La gamma delle difficoltà non è stata inserita per lusingare o far vergognare i giocatori, ma per dare la possibilità a coloro che lavorano sui titoli arcade di modificare le opzioni per massimizzare i loro profitti nella giungla di prodotti esistenti. Con i giochi arcade, proprio come sentenziò una volta lo scrittore David Mitchell, si paga per rimandare l'inevitabile. In altre parole, la sconfitta è certa. Ma un gioco troppo difficile produce dei giocatori che si sentono imbrogliati e amareggiati. Una serie di livelli di difficoltà segreti consente agli sviluppatori di titoli arcade di calibrare la difficoltà del gioco da dietro le quinte e poter monitorare gli effetti sul suo pubblico, massimizzando i profitti. Per questo motivo, tutti i giochi Neo Geo offrono non meno di otto livelli di difficoltà.

La difficoltà dei videogiochi è stata quindi una scelta commerciale, non artistica. Per molti sviluppatori era un obbligo che li distraeva dalla loro visione idealizzata dei videogiochi. Dopotutto, non è difficile realizzare un gioco difficile. Basta semplicemente soppesare i numeri (quanto velocemente dovranno sfrecciare i proiettili nemici nello spazio e nel tempo, quanta salute debba avere l'avatar del giocatore o quanto danno venga inflitto da una palla di fuoco) e unire tutti gli elementi che aumentano la difficoltà per scagliarli contro il giocatore. Il compito più difficile è quello di dare vita ad un gioco perfettamente calibrato, qualcosa che sia facile da imparare ma difficile da padroneggiare.

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Tuttavia, la terminologia utilizzata per descrivere questi livelli di difficoltà aveva già prodotto una forte connessione tra sfida e orgoglio nelle menti dei giocatori. I giochi che non presentavano molti ostacoli, che non provocavano abbastanza perplessità o non richiedevano molta perseveranza erano considerati delle specie di opere minori, realizzate, per dirla con la terminologia di Psikyo, per neonati o scimmie. La difficoltà è diventata rapidamente un parametro utilizzabile per escludere ed erigere dei muri di confine.

Più di recente, il vago termine “videogioco” ha assunto un significato molto più ampio, includendo una varietà di stili, forme e, per i designer che ci lavorano, anche diversi intenti artistici. Dear Esther, capostipite del genere denigratoriamente definito “walking simulator” chiede semplicemente ai giocatori di vagare su una splendida isola mentre si ascoltano frammenti di poesie. Questo tipo di gioco va essenzialmente ad eliminare la sfida che può presentarsi in un Call of Duty o in un Ocarina of Time, mantenendo solo le parti che in quei giochi intrigano o spingono a vagabondare.

Altri sono ancora più strani e particolari di Dear Esther. Coolest Girl in School del 2007 ad esempio, presenta ai propri giocatori il dilemma di come arrivare a fine giornata se ci si ritrova con una macchia da ciclo sulla propria gonna. In The Cat and the Coup del 2011 vestiamo i “panni” del gatto del Dr. Mohammed Mossadegh, il primo Presidente del Consiglio iraniano democraticamente eletto. Coming Out Simulator 2014 è semplicemente un gioco autobiografico in cui un giovane uomo cerca di parlare ai propri genitori del suo orientamento sessuale.

Questo ampliamento della definizione non ha in alcun modo tolto valore alla tradizione sportiva dei giochi arcade in cui si premiano i giocatori più veloci, forti e dotati di maggiori abilità riportando i risultati ottenuti sul glorioso tabellone dei punteggi più alti. Tuttavia, alcuni giocatori hanno sentito che la loro idea personale sulla definizione di videogioco (ovvero una sorta di ostacolo elaborato in modo complesso che richiede esercizio e dolore per poter distinguere gli uomini dalle scimmie) era in pericolo. Soprattutto in relazione ai giochi che trascurano la sfida in nome di altri elementi artistici realizzati da un nuovo tipo di designer, spesso nemmeno laureato in informatica che, grazie a strumenti “democratizzanti” alla portata di tutti come Flash, Unity e Gamemaker, ha avuto la possibilità di esprimere idee e interessi molti specifici senza tutti quei problemi commerciali ormai anacronistici dei giochi arcade.

Tutto questo mentre la difficoltà dei videogiochi stava diventando una specie di slogan: i giochi difficili sono realizzati da esperti per “veri gamer”, i giochi privi di sfida invece vengono realizzati da dilettanti per chissà chi. I muri di confine però, si stavano sgretolando. All'azione è seguita poi una reazione. Subito infatti, sono spuntati dei movimenti online che chiedevano a gran voce di potersi opporre a questo nuovo genere di videogiochi.

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I recensori di videogiochi, per la maggior parte disprezzati, ma allo stesso tempo invidiati almeno dai più giovani, sono rimasti vittima del fuoco incrociato. Quei redattori che con l'avvento dei video-gameplay hanno rivelato la loro inettitudine verso i giochi difficili, risultando ridicoli di fronte alla telecamera, hanno chiesto di dimettersi e, nei casi più estremi, riferiscono di essere stati oggetto di molestie verbali. Chi li critica sostiene che i recensori dovrebbero essere non tanto degli esperti che analizzano in modo approfondito il videogioco, ma soprattutto dei giocatori brillanti. Non si tratta di una richiesta del tutto sbagliata: un recensore di libri che non è in grado di arrivare alla fine anche del volume più semplice, chiaramente ha sbagliato lavoro. Ma l'ondata di critiche che si è scatenata contro alcuni recensori, di cui è stata percepita una mancanza di abilità, è diventata una guerra ideologica, istituita da chi vorrebbe che i recensori svolgessero il ruolo di guardiani di una particolare tradizione, anziché quello di esperti che s'interrogano sulla ricchezza di un medium in continua evoluzione.

Questa battaglia si fonda su un equivoco che riguarda non solo la storia del videogioco, ma anche il ruolo del critico, con tutte le spinte e l'estro che può avere una forma d'arte in continua maturazione. John Updike, il compianto scrittore americano e critico letterario, una volta ha illustrato le sue regole per la critica costruttiva. Si tratta di una lista essenziale che riguarda tutte le forme artistiche. La prima di queste regole è applicabile, non solo ai critici che desiderano migliorare, ma anche ai giocatori che vogliono essere migliori: “Cerca di capire quello che voleva fare l'autore e non biasimarlo per non aver raggiunto quello che non cercava di fare.” In altre parole, lo sviluppatore di un bullet hell shooter non dovrebbe essere criticato per non essere riuscito a creare un gioco più accessibile a chi non è in grado di schivare e colpire, sprezzante del pericolo. Allo stesso modo, i creatori di giochi dalle tematiche serie che parlano di morte o fiori, burocrazia o odio razziale non dovrebbero essere criticati per non aver fatto del proprio gioco un'arena in cui i giocatori possono dimostrare la loro destrezza o astuzia.

Il commento finale di Updike rispecchia chiaramente anche la nostra situazione odierna. “Non immaginare te stesso come custode di una qualsiasi tradizione, come paladino di un qualunque principio slegato dalla realtà, come guerriero in una battaglia ideologica o agente di correzione di qualcosa”, ha scritto. E per riprendere l'attuale slogan pubblicitario di Sony: i videogiochi sono per tutti, anche se alcuni di essi sono realizzati in modo specifico per qualcuno.

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Simon Parkin

Contributor

Simon Parkin is an award-winning writer and journalist from England, a regular contributor to The New Yorker, The Guardian and a variety of other publications.
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