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Gemini Man - recensione

Era meglio limitarsi alle pecore?

Non esiste un cecchino come Henry Brogan, capace di centrare il collo del suo bersaglio, che si trova a due km di distanza, seduto in un treno che va a quasi 300 km all'ora. Ma l'uomo è stanco, ha ormai 50 anni, vorrebbe ritirarsi dal mestiere, per raggiunti limiti d'età ma anche di sopportazione. 72 sono stati infatti i suoi bersagli, quelli singoli, senza contare gli ammazzati in una vita di conflitti in giro per il mondo, prima per la sua Patria, poi al servizio della solita agenzia para-governativa, che fa pulizia degli elementi "scomodi". Il problema è che non sempre "scomodi" significa "colpevoli".

Henry ormai di cose ne ha viste, ne sa troppe. Quello che non sa è che il suo capo, Clay Verris, anni prima, quando cioè Henry era al suo massimo fulgore quanto a efficienza, ha usato il suo DNA per il solito progetto folle eppure geniale e ovviamente segretissimo e ha creato un suo clone, che adesso è poco più che ventenne. Lo ha cresciuto come fosse un figlio, facendone una macchina per uccidere ma anche un essere umano che prova sentimenti. Potrà il buon DNA mentire? Henry, con l'aiuto di una giovane agente rimasta coinvolta nella faccenda, inizia la sua fuga, braccato dal più bravo, spietato, efficiente assassino sulla piazza.

Potremmo pensare che di killer in crisi è piena la storia del cinema, dal Samurai di Melville a Nicolas Cage in Bangkok Dangerous, passando per la coppia di assassini di In Bruges, al romantico Killer di John Woo, al mistico Ghost Dog, all'indimenticabile Leon, alla disperata Nikita, per approdare a Jason Staham, che in Professione assassino "rifaceva" Charles Bronson, e allo Hitman che arrivava dai videogiochi, per arrivare al killer al momento più noto, John Wick (e dove lo mettiamo Crying Freeman e Tom Cruise di Collateral?). A ravvivare quindi un tema ben noto, la storia raccontata in Gemini Man aggiunge il tema del clone, anch'esso molto amato dalla fantascienza non tanto "fanta" degli ultimi anni, viste le reali scoperte scientifiche.

Chi corre più veloce?

Sappiamo bene che molti generali sarebbero felicissimi di avere ai loro ordini un esercito di cloni (o replicanti), versioni ottimizzate dell'essere umano, privi però di tutti quei fattori che ci rendono così vulnerabili, la coscienza per prima, la capacità di interrogarci, di soffrire ed empatizzare con le sofferenze altrui. Versione dopo versione però vuoi che non si ottenga l'assassino ideale? Non ci si aspetti toni iperbolici da action "ganassa", vista la presenza di Will Smith, qui il trattamento ha la serietà di una vera spy story e l'attore si adegua con una recitazione quasi sotto le righe, così come mai eccessiva è la sua versione ringiovanita.

Questo dipende anche dalla tecnologia impiegata per la creazione dell'alter ego più giovane. Che non è banalmente quella del ringiovanimento, come abbiamo visto in recenti casi, qui il personaggio creato in digitale è infatti animato in Motion e Performance Capture, modellato cioè esattamente su movimenti ed espressioni dell'attore (come il Gollum, per intenderci, ma sono passati quasi vent'anni e il progresso in quel campo ha fatto proprio passi da gigante). In alcune circostanze, l'inseguimento in moto a Cartagena e il corpo a corpo nella catacomba a Budapest, si nota qualche movimento meno fluido nel personaggio digitale (che è sempre Will Smith, non dimentichiamolo), ma sono minuzie.

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Altro dato tecnico eclatante è il modo con cui il film è stato girato, con una tecnica chiamata HFR 3D+ (High Frame Rate a 120 fotogrammi al secondo invece che a 24). Per fare paragoni, diciamo che spesso i videogames hanno un numero di frame superiore a cinema e tv, 30 e anche 60, e che La desolazione di Smaug era stato girato in 48. Nonostante l'aggiunta del 3D, che qui è nativo e in 4K, la visione è luminosissima, dettagliata fino all'infinito, mentre verso lo spettatore si estende come al solito, offrendo una profondità di campo elevata e sempre con ogni particolare nitidissimo. In un'intervista Ang Lee racconta quanto siano importanti le fonti di luce, girando in questo modo, e per questo motivo di avere voluto alla fotografia Dion Beebe, vincitore di Oscar, definito un pioniere del digitale.

Gli effetti, sui quali oggi non esistono limiti, sono stati affidati alla mitica Weta. Quanto alla proiezione al pubblico, in Italia è in aumento il numero di sale che proietterà il film come merita, la casa di distribuzione avvisa che basta un aggiornamento del server per poterlo proiettare correttamente. Nel complesso vedremo una realtà con una qualità superiore al reale, grazie ai fotogrammi in più, con un fotorealismo elevatissimo, che si nota anche nei primi piani, nella resa delle espressioni.

La metà oscura

Ang Lee dopo il suo precedente film Billy Lynn, già realizzato a 120 fotogrammi al secondo, e anche dopo i precedenti Hulk nel 2003 e Vita di Pi, si conferma un ricercatore di innovazioni, uno sperimentatore, come (in questo campo) è Robert Zemekis. Ma qualcos'altro ancora, oltre all'aspetto tecnico, distingue questo film da tanti precedenti, anche se in fondo l'argomento ha sempre un suo appeal, a prescindere. Incuriosisce che Gemini Man sia un film che ha avuto una gestazione molto lunga. La sceneggiatura aspettava infatti da quasi vent'anni, nata da un progetto di Darren Lemke nel 1997, per essere realizzata dalla Disney, addirittura si dice con la regia di Tony Scott.

A scopo preparatorio nel 2002 era stato confezionato un corto, Human Face Project (si trova su Youtube), per testare gli effetti in CG, ma per problemi tecnici il film era stato accantonato. Circa vent'anni dopo, quando la tecnica di ringiovanimento facciale è ormai frequentemente usata, alla realizzazione si è interessato Jerry Bruckheimer, guru dell'action. Scegliendo però una tecnologia diversa, più complessa, più originale. Intanto negli anni la sceneggiatura era stata rielaborata da vari personaggi, anche di spessore, come Andrew Niccol e David Benioff (La 25° ora, Game of Thrones, Wolverine, le origini), che è rimasto citato nei credits attuali insieme al "padre" originale Darren Lemke, che nel frattempo non è rimasto inattivo (Il cacciatore di giganti, Turbo, Piccoli brividi, Shazam) e a Billy Ray (State of Play, Hunger Games, Captain Phillips, la serie L'ultimo Tycoon). A dirigere è stato chiamato Ang Lee, regista che ha collezionato nella sua carriera film assai vari, alcuni per noi bellissimi (La tigre e il dragone, Brokeback Mountain), altri sempre degni di nota (Hulk, Vita di Pi, Ragione e sentimento, Billy Lynn), capace di passare attraverso temi legati a culture diversissime e sempre interessato alle sfide tecnologiche. Pure per il protagonista c'è stato negli anni un rimpallo di nomi illustri, tutti bianchi, per arrivare alla fine su un attore di colore che riscuote molto successo in platee trasversali e in ruoli diversi, Will Smith, sempre gratificato da incassi miliardari.

Chi trova un amico...

Nella versione originale Smith fa parlare i due personaggi in modo leggermente diverso, dato il diverso percorso formativo dei due (e si perde nel doppiaggio), così come differenti sono gli stili di combattimento adottati. Clive Owen è il glaciale boss in delirio di onnipotenza divina. Ottima scelta come "spalla" quella della volitiva Mary Elizabeth Winstead, già una lunga carriera alle spalle, di recente apprezzata in 10 Cloverfield Lane e nelle serie Braindead e Fargo 3. Musiche di Lorne Belfe e niente hip hop martellante, da action fracassone, le canzoni aggiunte sono una Forever Young cupamente stravolta da Ursine Vulpine e Icon del figlio Jaden (scritto Ja!den). Riallacciandoci al discorso fatto per Tarantino (non sembri blasfemo), a modo suo anche Gemini Man è un film nel quale la cornice vale quanto se non più del dipinto, in un "forma vs sostanza" che non deve scandalizzare, quando si parla di prodotti di puro intrattenimento come questo.

Volendo poi filosofeggiare un poco, si potrebbe riflettere sulla forza dell'ereditarietà, sul fatto che individui simili per DNA possano subire l'influenza di educazioni diverse, eppure poi ritrovarsi più simili del previsto. Cerchiamo quindi di lavorare bene su di noi e sulle nostre discendenze, che forse in questo modo anche da lontano si troverebbero a seguire le sagge orme dei genitori. Insomma, siamo al solito detto popolare: buon sangue non mente, almeno si spera.