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Giochi usati, DRM e diritti dei consumatori - editoriale

L'usato minaccia di distruggere il mercato o è il mercato che rischia di distruggere se stesso?

Sfatiamo per una volta il mito secondo il quale noi gamer saremmo interessati solamente ad argomenti frivoli e parliamo per una volta di economia. Ormai è evidente a tutti quanti: l'attuale modello economico sul quale si basa il settore dei videogiochi non è sostenibile. Se a far comprendere il quadro non bastassero le dozzine di sviluppatori (piccoli e grandi) che sono falliti nel corso della passata generazione e il vero e proprio tonfo di THQ e Atari, a gridare a tutti quanti che "il re è nudo" sono arrivate le ultime dichiarazioni di Microsoft riguardo la nuova Xbox, che sembra fortemente intenzionata a cambiare in modo drastico il modo in cui compriamo e usiamo i "nostri" videogiochi. La situazione ormai è chiarissima: quella a cui stiamo assistendo è una lotta per la sopravvivenza.

Cerchiamo allora di capire cos'è che minaccia questa sopravvivenza, o esistenza sul mercato. L'opinione più comune tra i publisher è che il problema maggiore sia un fenomeno che, pur essendo sempre esistito, negli ultimi 10 anni ha assunto delle proporzioni senza precedenti: la compravendita di giochi usati. Se un tempo si sarebbe indicata la pirateria come nemica numero uno delle vendite di un titolo, adesso GameStop e la sua frenetica attività nel mercato della seconda mano sono identificati come problemi molto più minacciosi, anche grazie a console che nel frattempo si sono fatte sempre più difficili (relativamente...) da "piratare".

Si potrebbe dire che il mercato dell'usato è sempre esistito, e di certo non è un errore. Però bisogna considerare il fatto che mai come oggi un'intera catena mondiale (come GameStop, appunto) lo aveva trasformato nel fulcro del suo business e nella sua prima fonte di guadagni, cosa che ha fatto aumentare le compravendite di seconda mano in modo esponenziale e, soprattutto, le ha rese accessibili a chiunque, anche al pubblico più "casual", che non usa in modo massiccio eBay e simili.

È il costo di produzione a determinare il prezzo? E allora come mai il Blu-ray di Avatar, una delle produzioni più onerose della storia, costa un terzo di un videogioco?

"Se il mercato dell'usato non danneggia libri, film in DVD/Blu-ray e CD musicali, perché è considerato così pernicioso per i videogame? "

Il meccanismo lo conosciamo: compriamo un gioco nuovo a 60 euro, lo finiamo in 4 giorni, lo riportiamo a GameStop il quale ce lo prende indietro (diciamo per 30 euro di nuovo credito) e lo rimette in vendita a 55 euro. Solo 5 euro in meno del costo originale sono decisamente pochi, ma sono meglio di niente e in fondo il gioco è "quasi" nuovo, quindi un prossimo acquirente sarà tentato di comprare la nostra copia usata invece di quella nuova. Così facendo, farà realizzare a GameStop un guadagno netto di 25 euro, di cui lo sviluppatore e il publisher del titolo venduto non vedranno nemmeno un centesimo.

Le volte che abbiamo sentito qualcuno dell'industria lamentarsi di questa dinamica letteralmente non si contano. E anche le argomentazioni già portate a "difesa" del mercato dell'usato sono ormai ben note: i 30 euro che otteniamo vendendo un gioco usato, ad esempio, con buona probabilità verranno indirizzati verso l'acquisto di un altro gioco nuovo, e quindi in qualche modo torneranno in tasca a qualche publisher/developer. O anche: se il mercato dell'usato non danneggia gli altri settori "classici" dell'intrattenimento (libri, film in DVD/Blu-ray, musica su CD), perché è invece considerato così pernicioso nel settore dei nostri amati videogame?

Questo secondo interrogativo è di gran lunga il più complesso, ed è proprio qui che si cela il vero problema dell'industria dei videogiochi. Chiaramente, il motivo per il quale il mercato di seconda mano non danneggia in maniera significativa le vendite di film, libri e CD è lampante: non esiste infatti per queste categorie un mercato degli usati di volume nemmeno paragonabile a quello che abbiamo nel campo dei VG. Perché non esiste questo mercato? Per svariati motivi, collegati sia alla natura intrinseca dei vari media che al modello di prezzi che questi hanno adottato.

Un libro usato, ad esempio, può risultare ingiallito o spiegazzato (caratteristica intrinseca del medium, volendoci focalizzare al momento solo su quello cartaceo) e dunque meno desiderabile. I libri, d'altro canto, vengono venduti attraverso un pricing model che generalmente identifica due fasce di prezzo: circa 20 per l'edizione "pregiata", e circa 10 per quella economica. Il potenziale acquirente è dunque messo nella condizione di poter operare da subito una scelta. Va da sé che chi compra l'edizione pregiata lo fa per il piacere dell'oggetto, e quindi sarà più portato a conservare il libro comprato che non a rivenderlo, mentre chi compra l'edizione economica a 10 euro difficilmente si sobbarcherà l'impegno di rivenderlo successivamente per realizzare un controvalore modesto, che potrebbe aggirarsi sui 3-5 euro. Il gioco, semplicemente, non vale la candela.

Se GameStop è 'il nemico', come mai i publisher continuano a realizzarci partnership esclusive per preordini ed edizioni speciali?

"Proporre un titolo 'digitale' esattamente allo stesso costo della sua versione su disco è considerato aberrante dall'industry"

Per film su disco e CD musicali, il discorso della "consunzione" del prodotto non sussiste, eppure anche in questo caso non notiamo una compravendita così frenetica e strutturata di film "di seconda mano". Anche qui, la spiegazione ha a che fare con il pricing model e le differenti scelte a disposizione del consumatore: i film, ad esempio, possono essere affittati in svariati modi diversi, nel caso si volesse fruirne senza spendere troppo.

Nei negozi, poi, costano cifre decisamente più contenute rispetto al prezzo di un videogioco: meno di 10 euro per chi si accontenta dell'edizione base. Vale la pena rivendere un prodotto acquistato a 10 euro, oppure preferiamo risparmiarci la fatica, rinunciare a quei 5 euro che ricaveremmo dalla vendita e tenere il prodotto, magari per gusto di collezione o in previsione di altri utilizzi futuri? Il mercato ha già dato la risposta: DVD e Blu-ray usati si trovano saltuariamente sulle bancarelle dei mercatini, ma non esiste una catena mondiale e diffusa in modo capillare che ne abbia fatto il suo core business.

Sto suggerendo che per risolvere gli attuali problemi di mercato i videogiochi dovrebbero costare 10 euro? Non esattamente: quello che sto dicendo è che il mercato di seconda mano esiste perché i videogiochi costano molto (rispetto agli altri tipi di intrattenimento classici) e non offrono particolari possibilità di scelta ai consumatori. Sono un medium diverso dagli altri, ovviamente, ma richiedono ad un appassionato degli investimenti niente affatto indifferenti: giocare di media due titoli al mese, senza ricorrere al mercato dell'usato, costerebbe ad esempio circa 1.450 euro l'anno. Una cifra che non è alla portata di tutte le tasche, e che finisce inevitabilmente per generare in una corposa fascia di consumatori il desiderio di ridurre i costi, comprando titoli usati o rivendendo i propri giochi dopo averli terminati, per recuperare in parte la cifra spesa.

L'obiezione più comune a chi dice che "i videogiochi costano troppo" è che creare un videogame richiede enormi investimenti da parte dei publisher, e un notevole impiego di forza lavoro da parte dei developer, quindi è "normale" che questo si rifletta nel costo del prodotto. In realtà, non è così. Basta rifletterci per scoprire che la "produzione" di un libro richiede budget praticamente nulli (al di là dei costi di stampa, distribuzione e marketing, che però sono una cosa diversa), eppure un libro costa 10 euro esattamente come una copia in Blu-ray di Avatar, uno dei film più costosi da realizzare della storia del cinema (230 milioni di budget, più di qualsiasi videogame). Allo stesso modo, il disco "indie" dell'ultima garage band di Seattle costerà 10-15 euro, esattamente come l'ultimo di Madonna, che batte a martello ogni giorno da tutte le emittenti del panorama radiofonico. In breve: non è il budget a monte a fare il prezzo sul mercato del prodotto, specialmente di un prodotto replicabile infinite volte dopo la sua creazione.

Comprereste una console che vi impedisce di rivendere liberamente o prestare ad un amico un gioco che avete acquistato?

"Il mercato dei videogiochi dimostra che 60 euro sono una cifra che i consumatori ritengono troppo alta come investimento"

Ciò che fa il prezzo di un simile prodotto sul mercato è il valore percepito dai consumatori, la cifra che questi ultimi sono disposti ad investire senza percepire l'acquisto come una forzatura (parliamo ovviamente di chi è disposto ad effettuare l'acquisto: il fattore pirateria e download illegali è tutto un altro discorso). Al netto della pirateria, il mercato attuale dei videogiochi ha dimostrato che 60 euro sono una cifra che i consumatori ritengono troppo alta come investimento base per portare a casa un videogioco medio.

Di qui, il loro tentativo di mettere in atto diverse strategie di "risparmio", che non si verificano nell'ambito di altri media. Come abbiamo già visto, infatti, nessuno o quasi rivende un DVD subito dopo averlo visto, anche se teoricamente l'esperienza relativa è "conclusa" tanto quanto quella di un gioco portato a termine.

Ora, di fronte a un fenomeno del genere i produttori di videogiochi possono scegliere di seguire due strade diverse: rendere più appetibile il loro prodotto (migliorandone la qualità, riducendone il costo o trovando nuovi e più convincenti sistemi di vendita), oppure mantenere lo stesso modello e tentare di forzare la mano dei consumatori. A giudicare dagli ultimi sviluppi della vicenda Xbox One, sembrerebbe che abbiano scelto quest'ultima strada (almeno Microsoft, ma anche Sony a riguardo non è stata ancora sufficientemente chiara). Si vuole "combattere" attivamente il mercato dei giochi usati, rendendone molto più difficile la proliferazione e pretendendo di ottenere una percentuale dei profitti che esso genera, cosa che inevitabilmente andrebbe ad intaccare il margine di vantaggio che noi utenti otteniamo dalla rivendita. Il tutto attraverso un sistema talmente contorto e opinabile che gli stessi vertici di Microsoft non sono riusciti a comunicarlo in modo chiaro e diretto, probabilmente sia per paura della risposta del pubblico che per una certa dose di dibattito interno ancora esistente a riguardo.

Il passo che Microsoft sta compiendo è, a mio giudizio, sbagliato. Perché non esiste al mondo un modo per "forzare" un consumatore a spendere 60 euro su un qualcosa che lui ritiene non valere quella cifra. Eliminando o azzoppando il mercato degli usati, l'Xbox One otterrà un solo risultato: si compreranno più giochi nuovi in proporzione, ma meno videogiochi in termini assoluti, e il saldo dell'operazione potrebbe rivelarsi addirittura negativo in termini di incassi. Del resto, se non volevamo spendere 1.400 euro l'anno in videogiochi (o non potevamo permettercelo), di certo non cominceremo a farlo l'anno prossimo solo perché qualcuno pretende che lo facciamo.

Netflix consente ai suoi abbonati di accedere a un enorme catalogo di film per un costo mensile di circa 10 dollari. Un servizio del genere potrebbe esistere anche nel mondo dei videogame?

"Non esiste al mondo un modo per forzare un consumatore a spendere 60 euro su un qualcosa che lui ritiene non valere quella cifra"

Semplicemente, rinunceremo a qualche acquisto e continueremo a dedicare alla nostra passione il budget che possiamo e vogliamo dedicarle. Non ci sarà verso di "sfilarci" dalle tasche più soldi di quelli che abbiamo e che volevamo/potevamo spendere, e non esiste DRM always online che tenga a riguardo.

Per non parare del rischio che, infastiditi da politiche restrittive e "minacciati" da costi sempre maggiori e limitazioni sempre più invadenti, alcuni giocatori possano dedicarsi direttamente ad altre piattaforme (PC, tablet) o addirittura ad altre forme di intrattenimento. Videogiocare è bello ma non è una prescrizione medica... e forzando troppo la mano dei consumatori si rischia di "suggerire" loro di trovarsi un altro hobby. Come diceva il mai dimenticato Monkey Island: "Turn off your computer and do something constructive".

La strada da seguire, se si vuole tornare ad avere un mercato dei videogiochi sano dal punto di vista economico e possibilmente anche da quello creativo e artistico, è un'altra. Bisogna differenziare il mercato, in termini di prodotti, offerta e pricing model, e adattarlo a quello che i consumatori vogliono, offrendo il miglior servizio/prodotto possibile, rispettando appieno i loro diritti e tentando di ottimizzare il tutto per continuare ad ottenerne un profitto.

Faccio degli esempi: il mercato del cinema (anch'esso non sanissimo, a dire il vero) continua ad essere sostenibile, nonostante i budget multimilionari e i film venduti nei negozi a "basso" prezzo, perché può contare sui cosiddetti "mercati secondari". Un film esce al cinema, si vende in noleggio streaming, va in televisione... la vendita su disco fisico non è l'unica forma di introito che un produttore cinematografico conosca. Il videogioco, invece, al giorno d'oggi ancora viene venduto esattamente come 20 anni fa: attraverso un solo modello di prezzo. Questo non è più sufficiente e sostenibile. Abbiamo bisogno di soluzioni diverse.

Una di queste passa indubbiamente per il mercato delle vendite digitali, che finora è stato semplicemente un insulto all'intelligenza dei consumatori e alle dinamiche di un mercato logico e onesto. Proporre un titolo "digitale" esattamente allo stesso costo della sua versione su disco è infatti aberrante. Comprare un titolo su disco significa poterlo poi rivendere (per alleviare l'esborso economico, come già ampiamente documentato), ma anche prestare, scambiare, regalare. Con un titolo digitale tutto questo è impossibile, quindi quello che stiamo comprando ha un valore intrinseco inferiore per il consumatore, che a parità di prezzo non ha alcun motivo per scegliere la versione in download.

Un titolo acquistato tramite download digitale non può essere rivenduto e comporta costi inferiori. Perché il prezzo è identico a quello di uno su disco?

"Forzando troppo la mano dei consumatori si rischia di suggerire loro di trovarsi un altro hobby"

Eppure, proprio il download diretto viene individuato (e a ragione) come la forma più moderna, efficiente e al passo coi tempi di vendita di beni digitali. Quello che i publisher non vogliono ammettere è che lo spazio per ridurre sostanzialmente (con ogni probabilità di almeno il 30%, e forse fino al 50%) il prezzo dei beni venduti digitalmente, rispetto alle loro controparti fisiche, esiste eccome.

Vendendo un prodotto per via digitale, il publisher si risparmia le spese di stampa , distribuzione, vendita al dettaglio e smaltimento delle giacenze invendute. L'unica spesa aggiuntiva che deve sostenere è quella della gestione dei server, che però è esponenzialmente inferiore rispetto ai tre fattori sopra citati. La logica conseguenza è che i titoli in digital delivery potrebbero, e dovrebbero, costare molto meno di quelli venduti nei negozi fisici.

E perché non diversificare il mercato anche cominciando ad investire più seriamente su piattaforme digitali interessanti ed innovative come quella che Sony ha già creato con il suo PlayStation Plus? Un servizio di "abbonamento" che, per un costo mensile, consenta di giocare liberamente magari tutto il parco titoli della console, oppure un solo titolo al mese... o altre cose del genere? In fondo, sono proprio iniziative del genere che hanno consentito a compagnie come Netflix di affermarsi in tutto il mondo, o agli operatori telefonici di proporre offerte che il pubblico ha dimostrato di gradire enormemente. Ovviamente sono solo idee ma in questo momento abbiamo bisogno di idee come mai prima, se vogliamo realmente rilanciare il mercato e raggiungere tutti i consumatori differenti con le loro differenti esigenze.

A seguito di una simile rivoluzione, che deve essere indubbiamente iniziata dai publisher per primi, il pubblico probabilmente si rivelerà molto meno ostile all'idea di acquistare titoli tramite download digitale, e sicuramente meno oltraggiato da eventuali politiche di DRM simili a quelle annunciate per Xbox One, che attualmente molti respingono come "anti-consumer". Se Microsoft avesse detto qualcosa come "su Xbox One bloccheremo gli usati ma i giochi costeranno di base 30-40 euro e verranno scontati nel tempo", come avreste preso la notizia? Del resto, non è più o meno quello che già oggi fa Steam, e con un certo successo?

Su Android e iOS nessuno sente l'esigenza di rivendere i propri titoli. È possibile trovare un equilibrio simile anche per i videogiochi tradizionali?

"Il mercato mobile di Android e iOS genera miliardi di incassi all'anno, senza che nessun consumatore ritenga lesi i propri diritti"

Certo, Steam si differenzia dalle offerte Microsoft e Sony per il fatto di non essere monopolista (ha molti altri servizi digitali concorrenti) e per operare su una piattaforma "aperta" come il PC, e non su una proprietaria come le console: due differenze niente affatto da sottovalutare. Operando senza una vera concorrenza ed essendo proprietaria dei diritti sull'hardware (potendo quindi stabilirne tutte le condizioni di licenza e utilizzo), come Xbox Live e PSN si trovano a fare oggi, dubitiamo che Steam sarebbe altrettanto celere e generoso nell'effettuare i suoi famosi "saldi", che i giocatori amano così tanto e consentono di acquistare giochi anche importanti e recenti a prezzi davvero vantaggiosi.

A pensarci bene, però, esiste anche un altro mercato di software che già oggi si muove solo tramite gli acquisti digitali e che genera miliardi di incassi all'anno, senza che nessun consumatore ritenga lesi i propri diritti: stiamo parlando delle piattaforme mobile come Android e iOS. Perché nessuno si è mai lamentato di non poter rivendere la propria copia di Cut the Rope? Perché il pubblico ritiene che il prezzo del gioco sia più che opportuno, e che non ci sia nessun bisogno o motivo di ricorrere al mercato di seconda mano. Ovviamente stiamo prendendo in esame titoli dal costo molto modesto, ma anche dal valore intrinseco piuttosto contenuto: di certo nulla di paragonabile a uno Skyrim o a un Call of Duty.

Perché, dunque, non è possibile trovare anche per i giochi cosiddetti "tripla-A" un equilibrio del genere? Un costo al quale saremmo lieti di comprarli, senza dover sentire la necessità di rivenderli subito dopo per rientrare almeno in parte della cifra spesa? Un costo più vantaggioso che potrebbe massificare ulteriormente le vendite, ampliare il mercato e di conseguenza finire per generare gli stessi introiti di prima, se non maggiori? In fondo, se un Call of Duty vende 15 milioni di copie nuove e "altre 5" usate, significa che il bacino potenziale è di 20 milioni di giocatori e oltre. Perché non tentare di coinvolgere direttamente anche quei 5 milioni che attualmente sono esclusi dal giro del nuovo e preferiscono, o devono, appoggiarsi a quello della seconda mano? Certo, l'operazione è ambiziosa e comporta i suoi rischi, ma se veramente i publisher stanno lottando per la sopravvivenza, perché non tentare la carta della rivoluzione del mercato?

"I grandi publisher sono quotati in borsa, e le società per azioni conoscono un solo mantra: quello della crescita"

Questa domanda è probabilmente la più difficile a cui dare risposta, in quanto affonda le radici in profondità in ciò che i publisher di videogiochi sono diventati negli scorsi decenni. Ormai la stragrande maggioranza dei publisher è quotata in borsa. Per loro stessa natura, le società per azioni conoscono un solo mantra: quello della crescita. Se l'anno scorso hai guadagnato 100 milioni e quest'anno guadagni ancora 100 milioni, gli azionisti non gioiranno per i 200 milioni di attivo ma si lamenteranno perché non hai guadagnato più dell'anno scorso, non sei cresciuto e le loro azioni non hanno acquistato valore aggiuntivo, restituendo quindi un saldo nullo al loro investimento. È per questo motivo che Apple, pur avendo concluso lo scorso periodo fiscale con cifre record in quanto a vendite, ha visto un forte calo del valore in borsa delle proprie azioni: aveva venduto più dell'anno precedente, ma non abbastanza di più.

Microsoft pensa che limitando gli usati i margini di guadagno dei publisher (e i suoi) cresceranno. Voi che ne dite?

È questo meccanismo di corsa a perdifiato, senza direzione né tempo per fermarsi a riflettere, che ha trasformato l'industria attuale in quello che conosciamo: un settore in cui esiste posto solo per i titoli ad altissimo budget e altissimi rischi, che devono generare guadagni vertiginosi e subito. I titoli di "fascia media" non esistono più perché nessuna assemblea degli azionisti si accontenterà di sentirsi dire che la società è in salute e naviga felicemente "a mezza classifica", per usare una metafora calcistica.

Gli azionisti vogliono una cosa sola: vogliono vincere il campionato. Vogliono il prossimo Call of Duty. Vogliono investire nella nuova Zynga. Vogliono che le loro azioni comprate oggi a 100$ valgano 500$ l'anno prossimo o 1000$. 110$ non è abbastanza, perché crescere del 10% quando altri crescono del 50 significa "perdere soldi", significa aver investito sul cavallo sbagliato. E non importa se per ogni azienda che cresce del 50% ce ne sono dieci che, nel tentativo di stare dietro a questa folle rincorsa, falliscono.

Ecco perché qualsiasi publisher, attualmente, sembra preso da questa inestinguibile sete di ambizione e guadagni, sempre più grandi e sempre più rapidi. Ecco perché THQ, che esisteva da vent'anni come publisher di fascia media, si è lasciata improvvisamente prendere la mano nel tentativo di fare concorrenza a gitanti più grandi di lei (Activision ed Electronic Arts su tutti) ed è finita per fare il passo più lungo della gamba e capitombolare. Ed ecco perché i giochi devono essere tutti uguali, tutti tripla-A, tutti "pagami 60 dollari e poi, già che ci sei, dammi anche altri 20 dollari tra DLC al day one e online pass". Ed è chiaro che, in una lotta tra giganti, ci sono pochi trionfatori e molti perdenti, che quando cadono scuotono il terreno come un vecchio albero abbattuto.

"È questa inestinguibile sete di ambizione e guadagni, e non la compravendita dei giochi usati, che ha avvelenato l'attuale mercato fino a renderlo insostenibile"

È questa dinamica, e non la compravendita dei giochi usati, che ha avvelenato l'attuale mercato fino a renderlo insostenibile. Ed è a questo problema che Microsoft, Sony e le nuove console dovranno trovare una risposta, se veramente vogliamo avere maggiori speranze di vedere una nona generazione di videogiochi.

Come? Il primo suggerimento l'ho dato poco fa: mettere in piedi un mercato dei download digitali onesto. Prezzi inferiori rispetto alle release tradizionali su disco, per poi beneficiare del fatto che i giochi non saranno rivenduti e dunque una singola copia non potrà passare di mano 10 volte arricchendo solo GameStop.

Ma anche: differenziare il mercato. Ampliare le possibilità di scelta. Inventare nuovi canali di vendita, come gli "abbonamenti" ormai offerti in praticamente tutti gli altri settori dell'intrattenimento. Dare più spazio ai titoli indie, come Sony sembra fortemente intenzionata a fare con la sua PlayStation 4 (al contrario di Microsoft); tornare a investire budget ragionevoli per sviluppare quei giochi "di fascia media" che non saranno mass market ma hanno costituito l'ossatura del mercato dei videogiochi per oltre 20 anni; stimolare l'uscita di titoli più creativi ed economici per ospitare il prossimo "fenomeno" Minecraft o Angry Birds e far sì che straordinari successi del genere possano nascere anche su console, non soltanto sulle piattaforme "aperte" come Android e PC.

Se non si tenterà di fare questo, cambiando il mercato dall'interno per ottenerne una evoluzione e modernizzazione, e si continuerà invece a mantenere lo stesso fallimentare business model dei "60 euro e basta", forzando la mano ai consumatori per costringerli ad accettarlo, il futuro è già scritto, e non è un futuro roseo.