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Il paradosso della guerra alla privacy - articolo

Fino a che punto è giusto difendere i dati sensibili?

Qual è il prezzo da pagare per proteggere la nostra privacy? Se lo chiedono da tempo tanto il pubblico quanto gli esperti, soprattutto dopo il polverone sollevato da Edward Snowden qualche anno fa (e che oggi in troppi hanno dimenticato).

Sull'onda dello scandalo NSA hanno iniziato a parlare in maniera seria dell'effettiva necessità di criptare i propri dati e una delle prime compagnie a muoversi a riguardo è stata proprio Apple. Nel settembre del 2014, mesi dopo la prima rivelazione di Snowden, durante la presentazione del nuovo iOS 8 per la prima volta venne annunciato che i dati sui suoi dispositivi sarebbero stati criptati in un modo che nemmeno Apple avrebbe potuto decifrare.

Ci venne detto che dietro questa scelta della casa di Cupertino c'era la voglia di proteggere i propri clienti ma, con un pizzico di cinismo, si può anche dire che fu una studiata campagna di marketing, soprattutto dopo il caso PRISM in cui la società di Tim Cook era stata tirata in ballo.

Come spesso succede, se Apple fa una cosa gli altri seguono e allora ecco il via a una serie di annunci e iniziative di natura simile. Mentre il mondo della tecnologia si buttava in massa sul criptare ogni cosa, persino la più inutile, i governi di mezzo mondo hanno iniziato a brontolare. Negli USA, FBI e NSA chiedevano di lasciare una qualche possibilità di accesso ai dati in casi specifici d'importanza per la sicurezza nazionale.

Grazie a Edward Snowden sappiamo che l'NSA ascolta e registra gran parte di quello che ci diciamo.

Lo stesso è successo mesi dopo in Francia, dopo gli attentati che hanno scosso Parigi, e in Inghilterra, la cui lotta ai dispositivi criptati sarebbe giustificata dalla volontà di trovare e perseguire i sostenitori dell'ISIS. Proprio il Regno Unito si è mosso con più forza, minacciando il blocco della vendita di dispositivi e app che non garantiscano l'accesso ai dati alle forze dell'ordine.

I mesi sono passati e la discussione tra favorevoli e contrari è continuata senza sosta, tanto in rete quanto in tavole rotonde di esperti. Con la forte sensazione che un po' tutti stessero aspettando di vedere cosa sarebbe successo quando il problema si sarebbe presentato veramente.

Arriviamo così a questi giorni, quando un tribunale americano ordina ad Apple di aiutare l'FBI a sbloccare l'iPhone 5C di Syed Farook, uno dei due attentatori di San Bernardino che lo scorso dicembre ha ucciso 14 persone e ne ha ferite altre 22.

E qui scoppia il problema. Apple, per bocca del suo CEO, Tim Cook, annuncia di opporsi alla richiesta. La casa della mela morsicata dovrà giustificare la sua scelta ma è tutto tranne che scontato che la spunti. Questo perché la legge di praticamente ogni stato mette i rappresentanti delle forze dell'ordine davanti alla privacy dei cittadini in casi come questo, e quindi è possibile che il rifiuto di Apple venga a sua volta rifiutato.

I dati salvati sull'iPhone sono protetti col touch ID e con un codice. Al terzo errore si blocca il telefono, al decimo tutti i dati vengono cancellati automaticamente.

Cosa ciò possa comportare è impossibile dirlo: Apple potrebbero incorrere in una multa salata con l'obbligo di ottemperare a quanto richiesto, così come una multa giornaliera destinata a proseguire fino a quando non si pieghi. I più fantasiosi immaginano anche azioni penali verso il CEO di Apple o un suo alto dirigente. E addirittura un blocco delle vendite. Il futuro è incerto, quello che è sicuro è che la situazione è molto poco chiara e di difficile risoluzione.

Il vero problema è che Apple stessa al momento dichiara di non essere in grado di decrittare i file contenuti nel telefono di Farook. Per farlo dovrebbe adottare un sistema apposito, come una backdoor, forse possibile solo sfruttando una debolezza del codice. "Forse", perché non è nemmeno detto che esista, questa debolezza.

Comunque sia Apple si oppone anche perché, dice Cook, se creassero uno strumento del genere, poi sarebbero sommersi di richieste da parte delle agenzie di tutti i governi mondiali. E se questa richiesta è lecita, non è detto che un governo totalitario non lo faccia per spiare i propri oppositori e poi perseguirli.

È difficile dire chi abbia ragione in questo caso. Da una parte Apple fa bene a difendere la privacy dei propri clienti. Dall'altra si parla del telefono di un terrorista, al cui interno potrebbero esserci informazioni importanti per evitare una prossima strage.

Il CEO di Apple, Tim Cook, è sceso in campo per difendere la privacy dei suoi clienti (e promuovere l'immagine dei suoi dispositivi).

C'è chi sostiene che a volere criptare i propri file sono solo le persone che hanno qualcosa da nascondere, e chi invece che ragionando così si finirà in un mondo alla 1984 di Orwell. Ognuno di noi ha la propria idea ma è innegabile che entrambi gli aspetti della questione hanno dei problemi: dare a un governo la possibilità di spiare le nostre attività è sbagliato, così come lo è bloccare delle informazioni che possano salvare delle vite.

La cosa difficile da capire è se esista una via di mezzo tra chi difende la privacy e per chi vuole che questa sia abolita in casi eccezionali. Forse la risposta ce la darà il processo che Apple dovrà affrontare nei prossimi mesi. Nel frattempo, però, discutiamone qui.

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Mattia Dal Corno

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Tre passioni hanno caratterizzato la mia vita: fumetti, cartoni animati e videogiochi. Sono riuscito a trasformare le prime due in un lavoro mentre la terza è ancora oggi il mio hobby principale.

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