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La potenza della morte permanente nei videogiochi - editoriale

Sentimenti impossibili prendono vita nel tessuto del medium.

Il pensiero della morte è inevitabile, silenzioso, spaventoso. È radicato nei recessi del nostro intelletto, talvolta interviene per tenerci svegli la notte, s'insinua in tutte le opere dell'ingegno umano. Dovremmo imparare ad accettarlo ed accoglierlo, ma sembra un'impresa al limite dell'impossibile. È molto più semplice tener la mente impegnata per non soffermarsi sui misteri della vita, andando in cerca di frivolezze e distrazioni capaci di riempire i momenti più cupi. Eppure, in un modo o nell'altro, quel pensiero tornerà sempre, che lo vogliamo o meno.

Il medium dei videogiochi è una straordinaria distrazione, ma neppure il caloroso abbraccio dei pixel può risparmiarci dal concetto della morte. Già nell'87 l'idraulico Mario precipitava in burroni senza fondo, il colorato Pac-Man cadeva preda dei voracissimi fantasmi e, addirittura, dopo una temibile traiettoria a zig-zag le navette di Space Invaders riuscivano nell'intento di distruggere l'intero pianeta.

In quanti altri contesti, oltre a giochi e videogiochi, si può assennatamente esclamare la frase "sono morto" senza risultare folli? Nessuno. La morte videoludica è un concetto vecchio quanto il game design, e negli anni si è evoluto di pari passo con tutto il resto della disciplina, diventando una leggera punizione, una bacchettata sulle mani e una fonte di frustrazione. Negli RPG moderni capita costantemente di morire per un errore o per aver peccato di tracotanza, ma basta indossare un sorriso, tornare all'ultimo checkpoint e tutto passa in un battito di ciglia.

Call of Duty 4 fu segnato dallo scoppio della bomba sporca che portò alla scomparsa del primo protagonista.

Anche nelle opere narrative contemporanee capita ininterrottamente di vedere il nostro avatar soccombere di fronte agli imprevisti più disparati: un Kratos che crolla dinanzi ad un Draurgr fra le grida di Atreus, un Nathan Drake crivellato di proiettili durante una fuga rocambolesca, un Bayek di Siwa infilzato da mercenari particolarmente aggressivi. E di fronte a questi avvenimenti tragici battiamo un pugno sulla scrivania, scagliamo un'imprecazione, ci concediamo una risata e siamo immediatamente pronti per tornare oltre lo schermo.

La morte nei videogiochi è solitamente un meccanismo triviale che fa parte delle fondamenta tecniche su cui s'inerpica la narrativa. Raramente è associata al fortissimo sentimento della perdita, spesso lascia il tempo che trova, difficilmente riesce a coinvolgere psicologicamente chi sta impugnando il gamepad. Ma, al tempo stesso, il videogioco si è dimostrato innumerevoli volte il medium più efficace in assoluto nell'avvicinarsi a replicare in modo convincente quella terribile morsa emotiva.

Non è un segreto che il concetto della morte abbia mutato ferocemente il suo significato nell'ultimo decennio di opere espressive. Da quando Game of Thrones è divenuta la serie televisiva più seguita di tutti i tempi, protagonisti e comparse eccellenti di un qualsiasi racconto hanno iniziato a diventare sempre più fragili e sacrificabili, portando alle lacrime milioni di fan disperati nell'assistere alla scomparsa dei propri beniamini.

Ormai è diventato quasi un cliché: chi vuole competere a fianco dei giganti, deve necessariamente essere disposto a sacrificare le maschere più amate, perché è il metodo più efficace per colpire il pubblico dritto al cuore. La verità è che non è affatto facile compiere scelte di questo tipo: la scrittura dev'essere impeccabile e sempre coerente, altrimenti si rischia di cadere nel trabocchetto imboccato dallo show di HBO nel corso dell'ultima stagione, o ancora nel disastro creativo che ha segnato il destino di The Walking Dead di AMC.

Anche quando un nemico invincibile ci scaglia al suolo, non dobbiamo fare altro che riprendere dall'ultimo checkpoint.

I videogiochi, dal canto loro, costituiscono un'incredibile eccezione. Perché la morte di un protagonista o di un comprimario, nel medium, corrisponde ad una reale perdita da parte del giocatore, sia essa quella del proprio avatar o di un'importantissima risorsa per districarsi nei sistemi della simulazione, dando modo agli autori di spezzare un legame che non è solo empatico, ma anche pratico. Date le peculiari premesse del videogame, questo genere di morte ha finito per essere indicato con un nome nuovo e particolare, ovvero la "permadeath", l'unico meccanismo di scomparsa irreversibile per i personaggi virtuali.

Il primo titolo che salta alla mente analizzando questa meccanica è senza dubbio Fire Emblem, perché gran parte della fortuna della serie si deve proprio all'impattante implementazione della morte. Fire Emblem, per chi non lo sapesse, è prima di tutto un videogioco strategico che simula battaglie su scala più o meno ampia, mettendo disposizione del giocatore un incredibile roster di combattenti. Combattenti che non sono semplici risorse, ma anche e soprattutto fedelissimi compagni del condottiero in carica.

Se uno di questi comprimari pienamente caratterizzati dovesse morire, sarebbe perso per sempre, non sentiremmo più i suoi consigli né i suoi pensieri, e dopo il breve messaggio d'addio saremmo costretti ad avanzare senza di lui. Un sistema che disegna i confini del progetto non solo dal punto di vista autoriale, ma specialmente sul piano meccanico: ogni scontro si trasforma in una minuziosa opera di bilanciamento in cui mediare fra l'ardente desiderio di vittoria e la preservazione delle vite umane coinvolte, regalando un sapore del tutto inedito al gameplay.

Quanto sei disposto a rischiare per abbattere il nemico? Quanto è effettivamente forte il legame che hai costruito con questo semplice sprite? Il peso di ogni decisione finisce per riversarsi nei nostri ricordi, portandoci a rimuginare su cosa avremmo potuto fare per salvare figure che vanno ben oltre alla semplice pedina scacchistica. La chiave del meccanismo psicologico risiede infatti in un disturbante concetto di responsabilità, in seguito sapientemente reinterpretato da titoli come XCOM: Enemy Unknown.

Le meccaniche di permadeath costituiscono la magia dietro il successo di Fire Emblem.

Ma cosa accade, invece, quando un personaggio ci viene strappato via ingiustamente? Chiunque abbia giocato almeno un capitolo di Final Fantasy si sarà trovato sicuramente a sconfiggere un boss per il rotto della cuffia, affidandosi ad un unico eroe mentre il resto della squadra giaceva riverso a terra. Quella di Final Fantasy, infatti, è storicamente una serie dalle meccaniche di morte particolarmente leggere, pregna di strumenti e magie divine capaci di curare qualsiasi male.

Ed è proprio a causa di questa premessa che Final Fantasy VII è riuscito, nel '97, a portar via un pezzo di cuore ad oltre 10 milioni di fan, diventando una pietra miliare non solo nel genere di riferimento, ma nell'intero panorama del medium. Perché sul pianeta di Gaia, fra i sicuri confini della saga, si è consumata una tragedia che più d'ogni altra riusciva a concretizzare l'essenza del sentimento della perdita.

Quando Sephirot ha calato la sua lama con un volteggio, trapassando silenziosamente il torace di Aerith, ha superato con nonchalance il concetto del semplice villain, scatenando una tempesta emotiva destinata ad attraversare il protagonista, subito prima di bucare lo schermo. Cloud, infatti, si rivolgeva così al giocatore: "Aerith è morta. Aerith non riderà, non piangerà, non si arrabbierà mai più", per poi concludere con uno struggente: "Cosa dobbiamo fare ora?".

Cosa dobbiamo fare ora? Come possiamo andare avanti nel viaggio delle nostre vite dopo aver perso un amico o un parente? Dove si può trovare una simile forza? Ormai loro sono scomparsi per sempre.

La scomparsa di Aerith è tutt'ora la più impattante perché investe il videogioco a tutto tondo, senza risparmiare sistemi né meccaniche.

Certo, stiamo pur sempre parlando di un'opera videoludica, ma quali incredibili strumenti hanno studiato gli autori per rendere impattante la tragica morte di Aerith? La risposta è molto semplice: Aerith è veramente scomparsa. Non ci sono rimpiazzi né palliativi, non ci sono funzioni di rigiocabilità, non esiste una condotta capace di rendere evitabile l'inevitabile. Tutto quello che resta è un tangibile vuoto psicologico e meccanico.

Perché Aerith, oltre ad essere il potenziale oggetto delle attenzioni di Cloud e della maggior parte dei giocatori, oltre ad essere una comprimaria scritta in maniera coerente, è un personaggio fatto è finito dal punto di vista squisitamente tecnico. Può contare su una struttura dedicata all'endgame, su un arsenale di armi finali e su una serie di 'Limit Break' definitive proprio come ogni altro PG; fra le altre cose, è straordinariamente versata nella magia, ed è l'unico membro del roster a poter mettere sul piatto innate capacità curative. In poche parole, è insostituibile. E scompare per sempre.

Se tutto questo è accaduto nei '90, è impressionante come tutt'oggi sia difficile trovare comparativi efficaci nel panorama dei videogiochi, persino fra le decine di titoli intenzionati ad esplorare la meccanica, ciascuno a modo suo. La serie Modern Warfare di Call of Duty, ad esempio, è riuscita a girare un paio di scene decisamente impattanti dal punto di vista stilistico, ma non ugualmente efficienti nella traduzione emotiva della perdita.

Red Dead Redemption 2 ha esplorato la tematica della morte meglio di chiunque altro nell'intero ventennio, ma pur sfruttando al massimo quelle capriole unicamente possibili fra i confini del videogioco, ha finito per giocare nello stesso campionato della letteratura e della cinematografia. Oramai, a misurarsi da pari a pari con la "permadeath" sono rimaste prevalentemente le moderne iterazioni dei titoli di avventura, come i lavori di Dontnod, Telltale e Quantic Dream, forse a causa del timore reverenziale verso l'impatto sul tessuto del gameplay.

Del resto, a prescindere dalla formula espressiva, mettere in scena la morte di un personaggio è un'operazione piuttosto semplice, ma scolpirla nella pietra è quasi impossibile. Quando un temerario riesce nell'intento, tuttavia, sprigiona una delle forze più potenti fra quelle che possono manifestarsi nelle opere dell'ingegno. Che sia proprio The Last of Us Part 2 il prossimo pretendente al trono? In molti pensano che il vecchio Joel sia destinato a lasciare un ultimo profondo segno prima di salutarci. E se invece dovesse essere proprio Ellie a marchiarsi a fuoco nei nostri ricordi?

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A proposito dell'autore
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Lorenzo Mancosu

Editor-in-Chief

Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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