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Luci, Camera, Azione! - editoriale

La narrazione nei videogames: prova di maturità o c'è ancora strada da fare?

Sulla scatola leggo "L'esperienza Horror definitiva". Sul retro vedo immagini di attori in carne ed ossa in pose un po' maldestre. È Phantasmagoria, un titolo che viene da un'epoca che ora sembra ben più distante di quanto sia in realtà (parliamo del 1995). In quegli anni la novità del supporto CD-ROM sembrò il fuoco portato da Prometeo: niente più limiti di dimensioni, filmati e tracce audio non mancheranno mai, e anche la sudditanza rispetto al cinema cadrà. Finalmente siamo liberi di narrare le storie che desideriamo, come abbiamo sempre voluto.

Già, perchè il videogame ha sempre avuto un rapporto difficile con il cinema: un mondo sfavillante con star, milioni di dollari e un mezzo espressivo riconosciuto come "adulto". Tutte cose che i giochi si sono dovuti guadagnare con fatica.

Facciamo un balzo in avanti di quasi due decenni: oggi esistono produzioni che possono costare se non come blockbuster hollywoodiani (succede solo in rarisssimi casi), almeno come film con un buon budget, e l'uso di attori più o meno noti è estremamente diffuso, grazie anche a tecnologie di motion capture e laser scan sempre più raffinate. Ma siamo di fronte ad un mezzo di comunicazione davvvero adulto, ed affrancato dal lontano cugino? Cerchiamo di capirlo.

L'esperienza Horror definitiva era su 7 CD-ROM.

Per parecchi anni il videogioco si è dimenticato di questa vecchia ambizione, le avventure grafiche sono passate di moda, i "film interattivi" si sono estinti persino più rapidamente (anche se recentemente qualcuno ha provato di nuovo questa strada, con titoli come Night Shift o The Bunker), ed in generale il gioco ha fatto alcune cose che sa fare benissimo: pad alla mano abbiamo vinto battaglie, visitato pianeti e trucidato mostri mitologici. Quando tra una fase di azione e l'altra è scattata una cutscene, qualcuno ha sussurrato con ammirazione "caspita, sembra un film..."

Eppure qualche visionario non aveva abbandonato l'idea di creare una reale convergenza tra i due mezzi espressivi. Già, perchè alternare fasi di azione e recitate, per quanto possa essere spettacolare e ben fatto, come ha saputo fare ad esempio la saga di Metal Gear Solid, creerà sempre uno stacco netto in cui al giocatore si dice "pefetto, hai fatto quel che dovevi, ora goditi la cutscene."

Dicevamo che qualcuno stava cercando di andare oltre, e quel qualcuno era David Cage. Se avete giocato Fahrenheit, sapete di costa stia parlando: l'ambizione cinematografica è presente in ogni inquadratura, nella scrittura della sceneggiatura, nella struttura della narrazione. E aggiunge un altro elemento importante: la non linearità. Già, perchè il videogioco da un po' ha scoperto che può avere qualcosa che il cinema non avrà mai: la possibilità di evolvere quanto succede in modo interattivo insieme al giocatore. Le scelte hanno conseguenze, le conseguenze portano a nuove scelte. E così via.

All'inizio del gioco siamo messi in una situazione di rischio, spaesati, e ogni azione che faremo (o non faremo) avrà un impatto. Non tutto è perfett,o però: si dice che il gioco si sia dovuto pubblicare con una serie di compromessi, ed è evidente come nella seconda metà del titolo la dinamicità della trama sia molto minore, facendo più leva sui "quick time event" che sulla libertà di scelta. Questo non è altro che un modo per farci notare che fare questo genere di scelte è costoso, molto costoso.

Più la storia si ramifica, più contenuto si dovranno produrre, tra l'altro con il rischio che il giocatore finisca il titolo una sola volta, non vedendo mai parti grandissime del gioco. Lo stile di Cage è davvero stimolante, il mix di temi più adulti della media, personaggi accattivanti e azione porta a ottimi lavori come Heavy Rain e Beyond: Two Souls. E ovviamente, tra poco avremo tra le mani Detroit: Become Human.

Snake, è una cutscene, guido io!

Lasciamo per un momento i giochi di QuanticDream e passiamo a qualcosa di abbastanza diverso: ho finito solo di recente, ed in colpevole ritardo, Until Dawn. Il gioco di Supermassive Games è tremendamente coinvolgente: un horror dei più classici, un gruppo di teenager bloccati in una villa in montagna, e qualcosa o qualcuno che li vuole far fuori. L'azione passa spesso da uno dei ragazzi all'altro, e possiamo determinare, in base a scelte e di nuovo, con l'esito dei quick time event, chi vivrà e chi ri rimetterà le penne.

Questo gioco è in realtà interessante perchè in qualche modo ci mostra anche dove un titolo con questa ambizione, ovvero giocare a fare il film, abbia avuto il coraggio di spingersi. La struttura è più da serie televisiva, in realtà, con episodi separati, immancabili climax di tensione, e delle brillanti introduzioni in cui siamo al cospetto di un misterioso psichiatra - non temete, tutto ha un senso, ovviamente. Quello che però è un gioco per certi versi coraggioso, non riesce a rinunciare ad alcuni tratti appunto da videogame: dai collezionabili che "svelano il futuro" se trovati in numero sufficiente, fino al rendere espliciti tutti i punti in cui la trama ha avuto un bivio, con il cosiddetto "effetto farfalla".

Questi, e altri elementi sono punti di sicurezza per un giocatore. Qualcosa là fuori vuole farmi fuori, ma posso mettere in pausa, vedere quanti oggetti ho raccolto, e prendere nota dei bivi nella storia. In qualche modo mi tira fuori dalla storia che sto vivendo, dandomi un aggancio, una stabilizzazione, e di conseguenza rompe la forza dell'atmosfera. L'essere gioco, o il non riuscire a fare a meno di esserlo, diventa limite all'immersione.

È il momento allora di trarre qualche considerazione di senso più generale: se ci mettiamo anche i titoli di Telltale, e per certi versi pure Life is Strange, si inizia a vedere una serie di costanti. Intanto, siamo spesso chiamati a fare cose sostanzialmente inutili. Aprire porte, raccogliere oggeti, interagire con qualcosa in modo fin troppo esplicito. Se è alla storia che sto puntando, all'atmosfera, qual è il senso di girare maniglie, aprire cassetti?

La scena iniziale di Fahrenheit. Qualcosa di apparentemente semplice come pulire una scena di un crimine può avere tantissime ramificazioni possibili.

Alla base c'è il lessico del gioco, come si è sviluppato negli anni: premo un pulsante, faccio una cosa. Poi ci sono i quick time event. Se si imita il cinema, dove gli scontri e gli inseguimenti sono perfettamente coreografati e inquadrati, lasciare il potere espressivo al giocatore, in modo libero, porterà sempre a qualcosa di al di sotto delle aspettative. È come se ci fosse chiesto non solo di riuscire a battere un nemico, ma di farlo anche con eleganza ed in modo fotogenico.

Quindi ecco i quick time event, che ci portano l'illusione del controllo in sequenze sostanzialmente create perchè non vi sia reale controllo. E se ci facciamo caso, anche il solo spostarsi nel mondo è qualcosa di un po' innaturale: vedere qualcuno che sta giocando a qualunque dei titoli che ho citato non può essere scambiato per qualcosa di vero, plausibile. Cerchiamo oggetti, proviamo ad interagire con aree e sembreremo sempre in qualche modo innaturali, impacciati. Spesso echeggia quasi il "non posso fare questo" delle vecchie avventure Lucas.

Messa così sembra non se ne possa uscire: se anche i migliori della classe obbediscono alle medesime regole, quale può essere la soluzione? Dobbiamo scendere ancora più in profondità. Da sempre, dall'inizio, nei giochi siamo rappresentati da un alter ego che compie azioni concrete: corri, salta, spara. Questo vocabolario di azioni è perfetto per un platform, un action game. Ma è realmente quanto ci serve per qualcosa di più complesso?

Chi pensa sia un gioco per millennials si sta perdendo qualcosa.

Certo, in tutti i titoli di cui stiamo parlando si fa molto di più, ma quel punto di partenza è rimasto. Non per nulla le storie raccontate non riescono a prescindere da azione, lotta, inseguimenti, sparatorie. Non c'è nulla di male in tutto questo, non è di "violenza" che stiamo parlando, ma del fatto che anche i migliori titoli "narrativi", se fossero film o libri, sarebbero opere "di genere" (giallo, horror, fantascientifico). Opere in cui noi siamo gli attori e perchè il tutto funzioni, l'ideale è "buona la prima" ma si finisce praticamente sempre per correre, saltare, aggrapparsi, sparare, vivere o uccidere.

È davvero tutto quanto ci sia da dire? L'ambizione c'è, di raccontare qualcosa con un significato, una tensione morale, ma probabilmente non siamo ancora alla maturità espressiva, se gli strumenti narrativi sono cose come sparare o saltare dai treni in corsa. Perchè la situazione sia questa in realtà è motivato da molti altri fattori: il gioco è percepito ancora come puro intrattenimento, e poi scrivere un copione "action" o comunque di genere è più facile di dover creare storie meno roboanti, e personaggi più complessi.

È più semplice e meno rischioso far trovare documenti nei cassetti, piuttosto che dedurre informazioni da conversazioni non lineari con personaggi credibili. Eppure proprio lavorando sui limiti di questo genere Life is Strange ha costruito il proprio successo: certo, c'è il soprannaturale, l'azione, ma anche tanta vita normale e personggi che interagiscono tra loro in modo complesso. Paradossalmente l'inizio è talmente sottotono rispetto ad altri titoli, da essere definito come "gioco per teen" o "millennials". Giusto, i veri gamer devono impallinare zombie, no?

Non fatevi ingannare dallo stile visivo: Virginia è molto serio e profondo.

Un altro titolo per me molto importante per esplorare i confini del potenziale narrativo ed emotivo è Virginia: superficialmente potrebbe essere definito un thriller ma vi è molto di più, ed è incredibile il livello di empatia che riesca a scatenare nel giocatore pur essendo un titolo totalmente privo di dialoghi parlati. Il montaggio delle sequenze, i tempi e gli stacchi temporali, sono in puro stile Lynch, ed offre molti elementi di riflessione sul genere di gioco puramente narrativo. In realtà l'interazione è limitata ma non vi è mai l'impressione di fare qualcosa di "fuori posto", a tutto beneficio di immrsione e coinvolgimento.

Siamo ancora un pò distanti da "Il Maestro e Margherita" o da "The eternal sunshine of the spotless mind" (da noi, ahimè, "Se mi lasci ti cancello"), ma in qualche modo ci stiamo affrancando dal fumettone con scazzottate e si sta arrivando, con un pò di lentezza, a qualcosa di un po' più assoluto. Cechov diceva più o meno: "Se una pistola entra in scena, dovrà prima o poi sparare". Ci si dovrà affrancare da una serie di oggetti e luoghi comuni nel linguaggio del videogame. O almeno di certi videogame, a tutto beneficio del mezzo in senso più ampio.

Luci, camera, azione.

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Michele Caletti

Contributor

Michele Caletti è R&D programmer presso Milestone. Ama qualunque cosa vada a velocità smodata su due o quattro ruote, e le relative trasposizioni digitali.
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