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Pistol Recensione | I Sex Pistols prima dei... Sex Pistols

Ma il Punk ha poi cambiato il mondo?

In generale un artista cerca di accattivarsi il pubblico, di ingraziarselo e assecondarlo, specie se di suo non ha molto da dire e vuole solo diventare famoso. Altrimenti osa di più, sfida, provoca.

Gli appartenenti al movimento punk hanno fatto ancora di peggio, sfidando e provocando anche quando non erano minimamente dotati come cantanti o strumentisti, capaci solo di trasmettere selvaggiamente un disagio di vivere che negli anni ‘70 ancora non aveva trovato soluzione (né mai la troverà, del resto).

Lo hanno fatto attraverso look e atteggiamenti di sfida esasperati, con la propensione a considerare che la rottura degli schemi passasse attraverso droghe, alcol ed eccessi di ogni tipo (mostrando qui pochissima originalità rispetto a tanti artisti di ben altro livello artistico).

Il nome che più di altri è diventato bandiera del movimento è stato quello dei Sex Pistols. Di alcuni suoi componenti o fiancheggiatori già il cinema si è occupato, perché si trattava di gente come Sid Vicious (il film di Alex Cox, Sid & Nancy), Malcolm McLaren (The Great Rock ‘n’ Roll Swindle), Vivienne Westwood, eccentrica stilista tutt’ora sulla piazza.

Il punto di vista dei Sex era stato messo in scena da Julien Temple nel suo documentario The Filth and the Fury, in cui nel 2000 i membri sopravvissuti dei Sex Pistols raccontavano la loro versione dell’ascesa e della caduta del gruppo e del ruolo avuto da McLaren, loro creatore e manager, senza dubbio mente astuta da guerrilla marketing.

Il gruppo prima di Sid Vicious.

Questo nuovo trattamento, tratto dall’autobiografia del primo membro del gruppo, il chitarrista Steve Jones, Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol, è stato scritto da Craig Pearce (a fianco di Baz Luhrmann in tutti i suoi film fino a oggi, Elvis compreso). La direzione di tutti i sei episodi è di Danny Boyle e subito si pensa a Trainspotting, che di un certo ambiente ha detto tutto (ma non dimentichiamo il tenerissimo ritratto proletario di Millions), autore di film fra loro molto diversi, come The Beach, 28 Giorni Dopo, The Millionaire, 127 ore, Steve Jobs e Yesterday, che qui fa suonare e cantare gli attori e registra dal vivo le esibizioni musicali.

Pistol, visibile su Disney +, racconta la storia di un personaggio di cui i non appassionati del genere poco sapevano ossia Steve Jones, co-fondatore del gruppo nel 1975 insieme al detestato Johnny Rotten (vero cognome Lydon), tre anni, quattro singoli e un album per passare alla storia, definiti fondatori del punk britannico e autori della profonda spaccatura con il rock ‘n’ roll, osteggiati dalle autorità, con apparizioni pubbliche che spesso degeneravano in risse anche con gli spettatori.

Nel 1977 il loro stravolgimento di God Save the Queen fu considerato un vero attacco alla monarchia e al nazionalismo (ottuso) di molti inglesi. Ma allora imperavano la più bieca grettezza piccolo borghese, il moralismo più ipocrita, assai poco scalfito dagli anni appena transitati della Swinging London dei Beatles e dei Rolling Stones. Erano anni di grave crisi economica e forti contrasti sociali e generazionali, tanto per cambiare.

I ragazzi si conoscono tutti ruotando intorno al negozio di abbigliamento di Vivienne Westwood e del marito Malcolm McLaren a King’s Road e da lì iniziano le esibizioni. Jones era un ragazzo “danneggiato” perché fin da piccolo abusato, picchiato, umiliato, respinto, per di più quasi analfabeta a causa di una dislessia di cui allora nessuno si era curato e che gli aveva attirato solo disprezzo.

Vicious e Rotten, un’abbinata sconvolgente e sconvolta.

Jones nascondeva sotto la strafottenza e un’esagerata vitalità uno spirito reso vulnerabile dalle infinite ferite subite. La narrazione segue il gruppo dal ‘75 all’inizio del ‘79, con le prime incursioni in territorio musicale da dilettanti assoluti, le amicizie e gli amori, e come si sono incontrati, piaciuti, odiati, accettati, rifiutati e poi messi insieme e velocemente lasciati, nonostante la loro evoluzione musicale, il successo planetario e il folle tour negli States.

Ma nessuna ricostruzione può restituire il furore personale, l’intima violenza attraverso la quale si esprimevano. Sullo sfondo scorre anche la vicenda di Chrissie Hynde, poi leader dei Pretenders, che in quegli anni faceva la spola fra i nativi Stati Uniti e l’Inghilterra in cerca della sua strada, resa ancora più ardua dal fatto di muoversi in un ambiente dove, come in tutti gli altri, il maschilismo imperava nonostante tutte le sbandierate pretese di rottura con lo status quo.

Pistol è una serie ben scritta, ben interpretata, che traccia un quadro di quegli anni anche da un punto di vista storico, politico e sociale attraverso l’accurata ricostruzione di ambiente e costumi, con spezzoni di documentari e una grande selezione musicale, che può interessare anche chi nei confronti di quel genere musicale non abbia il minimo interesse.

Il progetto è stato disconosciuto da Johnny Rotten e come dubitarne, anche se il suo personaggio non è tratteggiato in modo del tutto negativo. Certo la serie mette in scena una propria versione del rapporto fra i vari membri e il manager e della loro rottura, e magari le cose non sono andate esattamente così. Del resto, non c’è che riguardare il documentario che nominavamo prima, The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, diretto nel 1980 da Julian Temple, per capire il personaggio McLaren, perché il suo gioco era scopertissimo (Cash for Chaos era lo slogan) e la serie TV si adegua a quel punto di vista.

Steve Jones, ottimamente affidato a Toby Wallace.

Steve Jones e Paul Cook (batterista) lo hanno comunque citato in giudizio per riuscire ad usare la musica della band in base a un vecchio accordo legale e ce l’hanno fatta (manovra invece fortunatamente non riuscita a Gabriel Range per Stardust, il suo film sulla prima avventura di Bowie negli USA e in questo caso concordiamo).

Ottimo il cast con facce ben scelte, pescando nell’incredibile riserva di giovani attori che ha a disposizione il mondo anglosassone (ma sembra ce l’abbia chiunque, tranne l’Italia). Jones è interpretato da Toby Wallace (la serie The Society), patetico ragazzone senza arte né parte in cerca di un futuro che sarebbe comunque stato migliore di un orribile passato.

Grande immedesimazione per Anson Boon, che è uno spiritato e inferocito Rotten. Vicious ha la bella faccia di Louis Partridge (era nella serie I Medici). Visti in altre serie TV, invece, gli altri membri del gruppo. McLaren è affidato a Thomas Brodie-Sangster (quanto tempo è passato da Love Actually), che pur avendo la stessa età del suo personaggio a quel tempo, sembra troppo giovane.

Una Talulah Riley molto chic è la sua consorte Vivienne. Sydney Chandler interpreta Chrissie Hynde, personaggio che dimostra che si poteva anche uscire vivi da lì. Irriconoscibile sotto il trucco pesante di Jordan, “icona di stile” dell’ambiente, troviamo Maisie Williams di Game of Thrones. Splendida colonna sonora, composta da pezzi dei Sex e da canzoni di Bowie, T-Rex, Otis Redding, Alice Cooper, Elvis, Stooges, Who.

Una delle molte esibizioni “oltraggiose”.

Pistol potrebbe essere una serie divisiva, fra chi la apprezzerà come l’interessante quadro di un momento storico e chi la detesterà perché traccia un ritratto dei protagonisti da cui dissentire (ciascuno ha dei propri idoli una personale immagine). Più che altro dimostra una volta di più che spesso “è dal letame che nascono i fiori”, nel senso che sono proprio condizioni di vita durissime, traumi e sofferenze a fare da terreno fertile per un’esplosione creativa, vista come unica via di fuga da una vita già tristemente scritta. Se sei coccolato fin dagli esordi da una casa discografica, rivestito da stilisti vari e con un’immagine studiata a tavolino mentre altri esperti gestiscono la comunicazione, hai poche speranze di dire qualcosa di davvero originale.

Ma a cosa sono serviti? Cos’è rimasto dei Sex Pistol, alla fine, che pure riuscirono a far sembrare stirati e inamidati i Rolling Stones? Loro erano “i bambini cattivi, rimasti dopo che quelli buoni erano stati presi”, in una Nazione che, come tante, ha esibito una spocchiosa grandeur camminando indifferente sopra i problemi della maggior parte della popolazione. Ossia i non-happy few, i tanti disgraziati che ciclicamente hanno cercato di far sentire il loro disagio, decennio dopo decennio, senza riuscire a migliorare poi molto. Ma non è con le canzoni che si cambia il mondo: al massimo si diventa ricchi magari e si cambia il proprio.

I vari protagonisti della storia sono andati avanti da soli, chi è sopravvissuto ha imparato a suonare, a cantare e a esibirsi in base alle regole dello showbiz. Vicious è finito come sappiamo, gli altri hanno continuato carriere diverse, tutti sono comunque usciti dalla povertà e della Rivoluzione si sono dimenticati.

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Più di tutti se n’è dimenticato Malcolm McLaren, personaggio assai discusso ma indiscutibilmente geniale, che aveva sempre pensato a rompere gli schemi per conseguire fama e ricchezza, morto però nel 2010 a soli 64 anni. La Rivoluzione ha pensato di continuare a farla Vivienne Westwood, 81enne sempre attiva, diventata stilista con collezioni intitolate Propaganda, Active Resistance, Active Resistance to Propaganda, insignita addirittura del titolo di Ufficiale dell’Impero Britannico e poi “Dama di Commenda dell’Impero Britannico”. Lydon invece ha sposato un’ereditiera tedesca e oggi vota Trump.

Nemmeno i loro fan più accaniti hanno fatto la rivoluzione e sono andati avanti a vivere le loro vite da derelitti, se non hanno avuto la forza di cambiare. Ma per un paio d’anni si sono sentiti meno isolati, meno soli, mentre si scatenavano sotto i palchi delle loro esibizioni. E anche questo, in fondo, è stato qualcosa.

Ormai “L’urlo e il furore” si sono spenti, perché se “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, è obbligatorio che i commensali abbiano almeno l’energia per alzarsi in piedi e uscire a farla.

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A proposito dell'autore

Giuliana Molteni

Contributor

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