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Raging Fire | Recensione - quando divampa il fuoco della vendetta

Un noir d’azione che ricorda molti gloriosi film di genere.

Ci sono nostalgie serie e facete, si rimpiangono i ricordi della nostra infanzia, luoghi che abbiamo abbandonato, case che non abitiamo più, oggetti amati e smarriti, persone che abbiamo perduto lungo la strada.

C’è poi il rimpianto che ci assale ascoltando le musiche e rivedendo i film di un tempo che fu, felice sicuramente, magari anche innocente. Una forma di nostalgia (frivola, sia chiaro) è concessa anche nei confronti di un certo cinema di genere, quando questo ci ha sorpreso e appassionato, come quello che negli anni ‘80/90 ci ha fatto scoprire registi come John Woo, Andrew Lau, Ringo Lam, Tsui Hark, Ching Siu Tung.

Si trattava di polizieschi noir, che a loro volta erano debitori al cinema francese degli anni ‘50/ 60 ma nell’azione avevano invece salde radici locali e ci avevano sedotto per la mescolanza di temi e lo stile narrativo assolutamente innovativo. Oggi questa nostalgia può trovare momentaneo sollievo grazie al film Raging Fire, scritto e diretto da Benny Chan, morto prematuramente poco dopo la fine delle riprese del film.

In una Hong Kong di sempre più occidentale splendore (almeno quanto alle modernissime architetture), il più classico sottobosco della malavita non smette di architettare azioni illegali, che minano la civile convivenza. Ma ci sono le forze dell’ordine a contrastarle, giorno dopo giorno, perché questo è il loro eroico compito, che implica mettere a rischio la propria vita, nonostante stipendi che fanno barcollare di fronte ai profitti dei malviventi, nonostante regole severe ma imprecise, che in fondo fanno affidamento sull’intrinseca rettitudine morale del singolo agente.

I duellanti.

In Raging Fire un gruppetto di cani sciolti di estrema ferocia si insinua fra le solite gang e gli agenti di Polizia, senza che nessuno di questi si renda conto che c’è un nuovo contendente sulla piazza. I banditi minano equilibri consolidati, mettendosi contro tutti, malavitosi e tutori della legge. Perché loro agiscono in base a leggi proprie, che sono quelle del loro spietato capo Yau.

Contro di loro non può che scendere in campo Cheung, integerrimo detective che ha visto sterminate decine di colleghi in un colpo solo e agisce perché è il suo lavoro, ma anche per vendetta. Perché Cheung ben sa chi sia il nuovo avversario che lo sta fronteggiando e che da lontano ha sempre mirato lui.

Raging Fire è una storia di vendette incrociate, di amicizie infrante, di ideali spezzati, con due protagonisti speculari. Donnie Yen è il poliziotto, attore mai particolarmente espressivo ma ottimo combattente, portato alla notorietà dalla serie di film Ip Man. Il villain principale invece è il più carismatico Nicholas Tse, ex buon poliziotto rovinato dalla viltà dei superiori e scatenato alla ricerca di una vedetta suicida. I cattivi hanno facce meravigliosamente patibolari, laide, viscide, i colleghi di Cheung sono eroici e nobilmente votati alla loro causa ma soprattutto al loro capo.

Un villain davvero carismatico.

Emergono in tutta la loro scandalosa chiarezza l’ipocrisia dei vertici superiori, la cecità degli Affari interni, la rigidità burocratica che favorisce i delinquenti. Un sistema che induce a pensare solo alla carriera, alla pensione e non a fare davvero e per bene il mestiere più duro che ci sia: il buon poliziotto, l’onesto tutore della legge.

Raging Fire, sotto l’apparenza di un normale poliziesco, riprende invece i barocchismi di tanti film dei registi sopra citati, con meno eccessi estetici ma tanti caratteri stilizzati, con scene d’azione dalle coreografie così iperboliche da far impallidire Dom Toretto che afferra al volo la sua Letty, precipitando da un viadotto all’altro, equilibrate però da corpo a corpo di secchezza encomiabile, solite efferatezze e sparatorie devastanti.

Proprio uno scontro a fuoco nel finale si fa notare, con armi pesantissime in mezzo al traffico e modalità che richiamano alla mente quella splendida di Heat di Michael Mann. Il film si chiude con un combattimento in cui i due protagonisti danno dimostrazione della loro preparazione atletica.

Due concezioni della vita che si confrontano.

Raging Fire, che per ora è in streaming a pagamento su varie piattaforme, all’interno di una struttura di genere consolidata ha una conclusione romanticamente retorica, con il Bene che vince sul Male, il Buono che sconfigge il Cattivo. Anche se qualche volta il Cattivo le sue buone ragioni le può avere e il Buono può avere sbagliato qualcosa.

Il Sistema se la cava sempre, intoccabile alla pari delle organizzazioni criminali che non riesce mai a estirpare e va avanti sui corpi maciullati di chi si è illuso di fare la differenza.

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Giuliana Molteni

Contributor

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