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Retrogiocare ha senso? - editoriale

Il retrogaming è utile a capire la storia dei videogiochi o è solo un patetico passatempo per vecchi nostalgici?

Qualche mese fa ho conosciuto un appassionato di videogiochi anagraficamente più giovane di me: lui è un classe 1987, io 1973; mentre lui emetteva i primi vagiti, io scleravo con i miei genitori affinché mi comprassero l'Amiga 500; quando lui nel 2002 prendeva la sua prima console, una Playstation 2, io avevo già consumato e rivenduto una dozzina tra console e home computer e provato migliaia di videogiochi.

Perfettamente allineati su temi quali l'ansiosa attesa della oramai imminente next-gen, sul giudizio relativo agli ultimi titoli usciti e su quelli in arrivo nei prossimi mesi, ci siamo completamente allontanati non appena ho accennato all'esistenza e all'attuale giocabilità di titoli storici della mia infanzia/adolescenza/gioventù. Bubble Bobble? Mai sentito. The Last Ninja? Mai provato. Out Run? Vagamente sentito nominare, ma solo la versione 2006. Sale giochi? Che cosa sono? E così via.

Vedi alla voce 'classici intramontabili'.

In pratica, tutto lo scibile videoludico pre Playstation (2) per lui è un ammasso informe di titoli persi nell'oblio del tempo, poco appetibili ("ma figurati se mi son fatto un PC da 3000 cocuzze per giocare con gli emulatori") e che suscitano zero curiosità.

"Tutto lo scibile videoludico pre Playstation (2) per lui è un ammasso informe di titoli persi nell'oblio del tempo"

Normalmente una persona del genere l'avrei incenerita con rai fulminei, bollandola come casualona senza speranza, ma visto che sui titoli attuali il tipo ne sa (quasi) più di me, mi sono chiesto: si può essere "videogiocatori" e non aver mai provato Bubble Bobble o Monkey Island? Avere un cultura videoludica aiuta a valutare i titoli odierni o è una forma di paraocchi ("si stava meglio quando si stava peggio")? Il retrogaming è utile/necessario per capire meglio la storia dei videogiochi o è solo un patetico passatempo per vecchi nostalgici?

Sgombriamo il campo dalle incertezze: chi si è perso la golden age dei videogiochi, si è perso TANTO. Ma davvero, col cuore. Nella mia vita ho visto nascere tre grandi "fenomeni", eventi che hanno effettivamente "cambiato il mondo": i videogiochi, la telefonia cellulare ed internet e credetemi sulla parola, l'entusiasmo, la magia, la follia dei primi anni video-ludici è resterà insuperata e insuperabile da altri fenomeni di pari o superiore importanza.

Chi non ha vissuto in prima persona il periodo compreso tra la fine degli anni '70 e l'arrivo delle macchine a sedici bit non potrà mai comprendere appieno l'elettricità che permeava l'atmosfera di quei tempi. Gli appassionati di videogiochi erano i difensori di un fortino attaccato da ogni parte, una comunità entusiasta, organica (anche se le console war c'erano già ai tempi) e ingenua. L'avvento di un nuovo cabinato in sala giochi era un'apparizione mariana.

I giochi del passato sono mediamente più difficili di quelli attuali. Sarà per questo che molti neo-giocatori li snobbano?

Il Giappone? Per noi era un Paese alieno, lontanissimo, misterioso. Il flusso di informazioni, che oggi tracima copioso e fin troppo abbondante da ogni parte, allora veniva lentamente distillato su poche pagine di riviste che hanno fatto la storia con numerose foto in bianco e nero, piccole e sgranate. Quale appassionato di cinema rimpiange, chessò, il Ciak di fine anni '80? Nessuno, credo. Quanti videogiocatori trenta/quarantenni si sciolgono in lacrime (metaforicamente...) al sentire nominare Video Giochi, The Games Machine o Game Power? Molti, tutti forse. E potrei continuare.

"Molto raramente passo del tempo su emulatori e ancor meno sulle console e computer originali del passato"

Detto questo e analizzando i miei comportamenti degli ultimi anni, mi sono reso conto che la mia, uhm, retrogamicità, è molto accentuata in ottica teorico e documentale ma ben poco messa in pratica sotto il profilo ludico: ogni mese compro regolarmente Retrogamer (celeberrima testata inglese che da quasi dieci anni resiste indomita sul mercato trattando solo ed esclusivamente giochi del passato), molto spesso vado a vedermi longplay di titoli che non ho avuto per le mani o recensioni di vecchi sistemi hardware, ma molto raramente passo del tempo su emulatori e ancor meno sulle console e computer "originali" del passato.

Certo, ai tempi del Wii ho speso una bella sommetta sulla Virtual Console ma in termini di ore giocate non avrò superato la cinquantina, considerando tutti i titoli acquistati. Certo, "indottrinarsi" su una console o un gioco oggi fuori mercato è paradossalmente più semplice rispetto al periodo in cui quel gioco o quella console erano effettivamente sugli scaffali dei negozi. Internet ha portato e diffuso la conoscenza a livelli impensabili fino a poco tempo fa e il curioso ha sempre pane per i suoi denti. Resta quindi il tema della effettiva giocabilità che può offrire un gioco di venti o trent'anni fa.

Vi rendete conto che per un sacco di gente il videogioco è questo?

A ben vedere, oggi il retrogaming è un bel business: tra riproposizioni di titoli del passato (spesso con prezzi ridicoli, vero Nintendo?), re-interpretazioni di grandi classici, compilation o anche solo titoli "ispirati a", il giro d'affari non credo sia poi molto inferiore a quello che avevano generato i giochi negli anni '80. Ma chi compra questi titoli? Solo i nostalgici come il sottoscritto o anche gente come il mio conoscente di quattordici anni più giovane?

Probabilmente entrambi, ma ho qualche dubbio sul fatto che le matrici ludiche così facilmente riconoscibili da uno come me, possano essere individuate da una persona più giovane. Un po' come quando esce l'ennesima versione di un classico del cinema e la gente lo va a vedere ignorando completamente che quella storia è già stata narrata venti, quaranta, sessanta, magari anche ottant'anni prima. Laddove però nel cinema, nella musica e soprattutto nella letteratura "il vecchio non è vecchio ma classico" (e spesso migliore sotto ogni punto di vista rispetto a quello che si vede, ascolta e legge oggi), per i videogiochi questo assioma non vale. O vale solo parzialmente e solo in determinati casi.

"Ammetto tranquillamente che il 90% dei videogiochi usciti all'alba dei tempi oggi sono praticamente ingiocabili"

Ammetto tranquillamente che il 90% dei videogiochi usciti all'alba dei tempi oggi sono praticamente ingiocabili. Eccessivamente difficili, poco user friendly, con modalità di accesso ridicole (chi ha nostalgia del tempo di caricamento delle cassette del Commodore 64? Eddai, nemmeno il più fanatico degli integralisti), scarsamente appetibili sotto il profilo grafico-sonoro. Ma del 10% restante che ne facciamo? Lo buttiamo via assieme al turbo tape, ai dischetti da 3½ pollici e ai multitap?

Personalmente resto convinto che i classici restino classici e come tali possono e debbono essere giocati. Sono ancora in grado di offrire sfida e divertimento e lo saranno anche tra innumerevoli generazioni. Sia nel loro formato "autentico", sia come fonte d'ispirazione per il mercato indie, che a ben vedere campa in larga parte con rielaborazioni di meccaniche ludiche già viste in passato, e ignote a molti giovani acquirenti che saccheggiano Steam o altre piattaforme di distribuzione.

Adesso vado a costringere il mio amico a farsi un doppio a Bubble Bobble, chissà che si riesca assieme a vederne il vero finale: da solo non ci sono mai arrivato...

Andrea Chirichelli è co-founder ed editor di Players Magazine, un progetto editoriale che mira a discutere di intrattenimento in maniera matura e indipendente, coinvolgendo un pubblico smaliziato e vagamente geek.

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Andrea Chirichelli

Contributor

Nasce circa 40 anni fa in una domenica buia e tempestosa. Negli ultimi anni ha offerto il suo discutibile talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic. Odia apparire in foto.
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