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Starfield sembra bellissimo, ma sono un po' preoccupato

Starfield è un titolo immenso, quasi un'utopia, ma cosa rende grandi i videogiochi Bethesda?

“Ma dai, come si fa ad essere preoccupati per un videogioco? Alla fine, è solo un videogioco!”. Sì, è vero, ci sono tematiche ben più importanti verso le quali esprimere preoccupazione. “E poi Starfield sembra un titolo mastodontico, e analizzarlo con occhio critico significa voler fare il guastafeste”. E anche qui nulla da dire, Starfield di Bethesda Softworks sarà senza ombra di dubbio un kolossal capace di bissare lo straordinario successo di Skyrim, forse addirittura una pietra miliare, e già adesso rappresenta la produzione più interessante emersa durante l'estate dei videogiochi. Ma...

Ma io sono un grande fan di Bethesda Softworks, non ho vergogna ad ammetterlo. Il momento in cui finisco di installare un lavoro dello studio e premo il pulsante “gioca” è come il primo giorno di ferie dell'estate. È come la finale dei mondiali per un appassionato di calcio, solo che la finale dei mondiali si disputa - cascasse il mondo - una volta ogni quattro anni, mentre di incipit di opere di Bethesda Softworks ne abbiamo vissuti cinque negli ultimi ventuno anni, uno solo negli ultimi dieci.

Todd Howard, che è una persona a cui indubbiamente piace ascoltarsi parlare, una cosa l'ha detta giusta: “Le nostre esperienze trascinano i giocatori all'interno di nuovi mondi in cui vivere esperienze che sembrano vere a causa delle emozioni che le accompagnano”. Ha ragione: per diverso tempo mi sono chiesto cosa rendesse tanto attraenti i capitoli della saga di The Elder Scrolls e le scorribande nella post-apocalisse di Fallout, convinto che la risposta risedesse oltre il velo di quei mondi.

La prima discesa sulla Luna di Kreet è molto diversa dall'emersione da un Vault o dall'inizio di un The Elder Scrolls.

La prima camminata che dal villaggio di Riverwood conduce fino alla collina che ospita Whiterun, e che avviene mentre qualche cervo attraversa la strada lastricata di pietre e diversi punti d'interesse fanno capolino nei confini della bussola, è un manifesto della densità e della cura riposte nell'operazione di world building. Allo stesso modo, le storie silenziose che emergono dall'esplorazione delle strutture sotterranee che costellano la Zona Contaminata della Capitale di Fallout 3, pompano fiumi di sangue nel cuore pulsante dell'esperienza.

Ora è vero che di Starfield sappiamo poco e nulla, che potrebbe tranquillamente rivelarsi un capolavoro di genere, ma personalmente una cosa mi sembra di averla notata: un'immensa, vastissima distesa di nuda roccia sullo sfondo della Luna di Kreet nel primo video di gameplay. E il sentimento di preoccupazione si è fatto ancor più pressante quando Howard ha confermato non solo che sarà possibile atterrare in qualsiasi punto di qualunque pianeta, ma soprattutto che nella galassia saranno presenti oltre mille pianeti differenti.

È del tutto possibile che il problema risieda solo in me, che gli ultimi anni mi abbiano reso allergico alle presentazioni di videogiochi che puntano su quanto un mondo virtuale sia “enorme, vastissimo, impossibile da concepire”. Nel sottobosco degli RPG open-world, le mappe contenute e ricamate artigianalmente si sono sempre e comunque dimostrate ricettacoli di contenuti ben più curati rispetto a quelli offerti dai mondi più sconfinati e vuoti, ed è fisiologico che sia così.

Si sono visti tanti spazi estremamente vasti e altrettanto apparentemente vuoti, privi di vita.

Su mille pianeti liberamente esplorabili, quanti potranno mettere in scena un livello di costruzione assimilabile a quello di una singola mappa presente nelle altre opere della casa? Quanti saranno nient'altro che miniere fluttuanti nelle quali raccogliere materiali destinati al crafting? Quanti replicheranno le brutte sensazioni di “Mass Effectiana” memoria legate alle esplorazioni con il Mako? Quanti ospiteranno fredde attività generate proceduralmente anziché alzare il sipario su grandi storie?

Durante la presentazione di Starfield è stato detto che questa è la naturale evoluzione della filosofia di Bethesda Softworks. E probabilmente è vero, chi l'ha detto ha ragione: del resto l'abbiamo già visto con Fallout 4, quando il miglioramento dei sistemi di shooting e l'introduzione di una grossa costola dedicata al crafting hanno preso il sopravvento sulla costruzione del mondo, sugli elementi da gioco di ruolo e sulla struttura del racconto. Quello è stato un primo passo verso l'evoluzione, eppure è stato un passo che già allora mi ha fatto storcere il naso.

Starfield si presenta, con tutta la sua ambizione, come il primo vero balzo generazionale nella nuova era delle console per videogiochi, e questo è indubbio. Non stiamo parlando di grafica o di sistemi, bensì di concetto: anche solo quella di sedersi a un tavolo e concepire un RPG nello spazio nel quale esplorare una galassia fatta di mille pianeti calpestabili sarebbe stata considerata un'idea al limite della follia fino a qualche anno fa.

La possibilità di atterrare su oltre mille pianeti ci fa mettere in dubbio la qualità di quei pianeti.

Ma è qui che entra in gioco la Nave di Teseo, la famosa nave dell'Antica Grecia che continuava ad essere chiamata e considerata la “Nave di Teseo” anche dopo che tutti i pezzi e i membri dell'equipaggio erano stati sostituiti. Quali sono gli elementi che hanno sempre reso grandi le opere di Bethesda Softworks? Forse si tratta dell'adrenalina che accompagna le fasi di combattimento? Magari degli elaborati sistemi di crafting e della presenza di loot? Oppure delle inconcepibili dimensioni dei mondi virtuali?

Secondo me, e ripeto, secondo me, no. Sono la cura riservata alla scrittura di quei mondi, la forte componente dialogica, l'impronta personale imposta dall'elemento ruolistico, la costruzione di mappe dense e sempre intrattenenti, la costante presenza di storie da svelare, a rendere grandi i videogiochi della casa. E sì, magari Starfield sarà basato su tutte queste cose e anche su qualcuna in più, ma non sono assolutamente le qualità su cui Todd Howard ha puntato per presentare al mondo intero la sua ultima produzione.

Del resto i giocatori che amano leggere ciascun manoscritto posto sulle librerie delle baite di Skyrim sono una specie in via d'estinzione, e quando l'obiettivo – citando direttamente Phil Spencer e Todd Howard – è quello di rendere Starfield “il videogioco più giocato tra tutti i titoli della compagnia”, beh, è naturale che per mostrarlo a milioni di persone si scelga di adottare un mantra che non a caso ha caratterizzato l'intera Summer Game Fest: “Costruisci, spara, esplora un mondo immenso”.

Però è evidente che oltre la presentazione si nasconda molto di più, e Starfield potrebbe diventare un capolavoro generazionale.

La mia speranza è che sotto questo spesso velo comunicativo e sotto la voglia di esagerare, risieda ancora la stessa anima che mi ha fatto innamorare del Vvardenfell, che mi ha trascinato dolcemente fuori dal Vault 101, e che mi ha risvegliato di colpo sopra la carrozza circondata dalla nebbia accanto a Ralof di Riverwood e Ulfric Manto della Tempesta.

E anche se alla fine non sarà così, anche se oggi sono un po' preoccupato, al momento del lancio sarò di fronte alla console come se fosse il primo giorno di ferie dell'estate, la finale dei mondiali: sarà la sesta volta in ventuno anni in cui si potrà metter mano ad un opera di Bethesda Softworks, nonché la prima volta in cui non si tratterà di The Elder Scrolls o di Fallout. E quando tutto sarà finito, spero di poter pensare alle stesse identiche parole che ho rivolto a Bethesda la prima volta che ho visto i titoli di coda di Morrowind, ovvero: “Non cambiate mai”.