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The Inner Friend - recensione

Un tuffo nel subconscio.

The Inner Friend, firmato dal team canadese di PLAYMIND, fa parte di un genere che ormai conosciamo tutti. È un'avventura dinamica dal taglio onirico, silenziosa e a tratti intima. Unisce platform, sezioni stealth e puzzle; si regge su un'atmosfera evocativa, sequenze inquietanti e scenari in bilico tra Lynch e Silent Hill. Dal 2017 il titolo, in origine soltanto su PC, si è distinto in diverse manifestazioni, con importanti vittorie al Tokyo Game Show (Best Experimental Game 2018) e al GCD di San Francisco (Best in Play 2019).

Da settimana scorsa The Inner Friend è giunto su console con un aggiornamento che aggiunge una cutscene segreta e invita a raccogliere i 27 collezionabili sparsi nei livelli, oggetti-feticcio dell'infanzia del silenzioso protagonista. Una manovra che migliora la longevità potenziale del titolo e che risolve in modo parziale i difetti di una regia indecisa, a tratti goffa. La varietà del gioco e il suo taglio grafico giustificano la breve durata dell'esperienza, che raggiunge le tre ore circa per i giocatori più contemplativi. Molto difficilmente si andrà oltre.

La vicenda comincia in una stanza logora, dove la sagoma di un uomo si contorce per gli incubi. Con uno zoom sul suo volto squarciato da una luce bianca, il salto nel subconscio avviene in un istante: più che onironauti, saremo parte dei suoi processi mentali, nella forma di un ragazzino di porcellana chiamato a risolvere traumi e dolori. Esplorando la trasfigurazione dei ricordi d'infanzia ripercorreremo la vita del protagonista e risolveremo alcuni dei suoi traumi.

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Troveremo vecchi corridoi di scuola sconquassati dall'orrore (forte l'eco di The Wall), musei di bizzarrie, strutture ricorsive, nebbie in foreste urbane, ospedali mefitici. Non mancano gli elementi metaforici e allegorici: per chi ricordasse Rime (2017), quest'oscurità fa parte del fascino di videogiochi dal focus psicologico, ma spesso ne è anche una zavorra. La mancanza di un comparto narrativo forte, senza un gameplay a bilanciare, in questo caso si sente.

Chi avesse apprezzato il remake di Yume Nikki (2018), invece, troverà negli ambienti surreali di The Inner Friend un buon metro di paragone. La differenza più corposa tra i due titoli, che fanno leva sullo stesso tipo di fascino, sta nella linearità e prevedibilità di fondo che attanaglia The Inner Friend, imprigionato da una struttura a livelli e da corridoi che, seppure ben costruiti, si susseguono senza grandi momenti di esplorazione libera.

Questo paragone non serve solo per capriccio: The Inner Friend sembra un museo d'arte contemporanea, e per questa ragione il gioco è complessivamente freddo. In Yume Nikki non esiste soltanto Madotsuki con il suo ingombrante passato, esiste tutto un cast di comprimari che ampia le dimensioni della storia rendendo tutto più interessante. The Inner Friend, invece, ha un Hub che si arricchisce di oggetti e informazioni man mano che procediamo, ma emotivamente non riesce a trascinare per via del protagonista piatto e anonimo.

L'impatto visivo è convincente e gioca sulla ripetizione di oggetti e pattern.

Inoltre, come già accennato, la struttura ludica è molto debole, se confrontata ad altri capisaldi del genere. I puzzle sono semplici, leggibili e funzionali. Eppure manca qualcosa: già nel primo livello, quando bisogna spostare dei libri per bloccare dei raggi letali, si ha una sensazione di artificiosità e incompletezza. Niente a che vedere con un gameplay collaudato come quello di Limbo (2010), altro paragone doveroso. Non è che manchino le animazioni ma quelle utilizzate hanno un qualcosa che ricorda giochi di molte generazioni fa, quando era lecito calciare un oggetto dello scenario per inviarlo (per magia) nel punto interessato, a costo di qualche transizione pindarica e implausibile.

I salti non sono agilissimi; la corsa del personaggio in certi momenti rivela una carenza di fisica nel mondo di gioco; l'IA delle strane creature che incontreremo è praticamente assente, in quanto si muovono come ostacoli dalla traiettoria leggibile dalla prima occhiata. Il gameplay non è così disastroso, non punisce mai il giocatore e non causa rallentamenti frustranti. In ogni caso, ciò non esclude che un giocatore navigato possa storcere il naso di fronte ad alcune ingenuità.

La telecamera si comporta bene, il movimento è piacevole e in alcuni momenti di intermezzo accompagna un onirico salto nel vuoto. Fluttueremo, in mezzo a case abbarbicate nell'abituale ammiccamento ad Escher, il padre virtuoso da cui questo genere di storie non riesce mai a districarsi. Un pregio indiscutibile è la grafica, con la luminosità e gli ambienti belli (salvo un'eccezione), davvero d'impatto, nonostante la già accennata staticità di fondo data da un gameplay allo stato di germoglio.

The Inner Friend è un viaggio estetico, il livello del museo ne esprime al meglio la vocazione.

The Inner Friend, come fa intuire il titolo, è un invito a cercare in noi stessi una cura dalle ansie della vita: il mezzo è proprio la presentazione di scenari conturbanti che risvegliano, senza per forza voler spaventare, paure recondite e universali. PLAYMIND punta all'eerie (l'inquietante appunto) dei luoghi e delle scene, giocando sulle apparizioni improvvise e sulla presenza di oggetti senza causa chiara e definita.

Eerie, secondo alcune visioni critiche (Mark Fisher su tutti), è quella sensazione che proviamo di fronte a un vuoto dove dovrebbe esserci qualcosa, o viceversa. I bambini senza anima, statue e fantasmi immobili che ci perseguiteranno; la mancanza di spiegazioni certe sulla trama; la musica alienante; il vuoto dentro una mente che dovrebbe brulicare di vita. Tutto è davvero eerie, come da intenzioni degli autori, e l'obiettivo si può dire raggiunto.

In conclusione, tra le qualità che valgono l'acquisto ci sono la sua veste estetica, la piacevolezza complessiva del viaggio (vario e concentrato), la colonna sonora. I modelli 3D sono molto validi. Il voto tiene in conto in special modo del valore artistico di alcune trovate e della combinazione di questi elementi.

Non mancano momenti orrorifici e claustrofobici.

Tra i difetti la trama, minimalista, forse troppo, al punto da cancellare un pizzico del mistero dell'ambientazione. Il gameplay invece, non al passo con l'originalità del comparto visivo, è in fondo giustificato dalle origini indie. Non si capisce però come mai non sia stato rifinito in vista di questo rilancio per conquistare il pubblico su console.

È doveroso quindi avvisare: chi non ami le passeggiate digitali o stia cercando una sfida più profonda, consideri pure un punto in meno.

7 / 10
Avatar di Antonino Fiore
Antonino Fiore: Classe 1993, in squadra dal 2018. Ha scoperto i videogiochi con i floppy dell’Amiga e da allora vive, sbalzato temporalmente, una generazione indietro. Dalle avventure grafiche agli horror, è un accanito retrogamer e un vorace escapista. Con gli anni ha realizzato d’essere, più che altro, un semplice Homo Ludens. Megaman e Suikoden sono i suoi punti deboli.

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