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The Northman Recensione: sangue chiama sangue

“Ricorda per chi hai versato l’ultima lacrima”.

Chi non conosce Amleto e la sua dolorosa vicenda, raccontata così mirabilmente da Shakespeare nella sua tragedia del 1600?

Interessa sapere invece che il personaggio esisteva ben prima e che Saxo Grammticus, religioso e storico medievale danese del 1200, è la fonte principale per apprendere notizie sul pallido principe danese, definito “figura leggendaria del romanticismo scandinavo”.

Si narra fosse un nobile dello Jutland che era andato incontro a lunghe avventure sanguinose, variamente rimaneggiate in diverse versioni (specie quella di François de Belleforest nelle sue Histoires tragiques), riassunte da Shakespeare e da lui affidate all’eternità. Ma c’è chi fa risalire tutto alla leggenda classica scritta da Lucio Giunio Bruto, fondatore della Repubblica romana.

Su questo materiale ha messo mano l’americano Robert Eggers, classe 1983, regista molto attento alla ricostruzione storica e ambientale, di culto al suo solo terzo film dopo l’originale horror The Witch (in cui già usava un inglese arcaico) e The Lighthouse, parimenti horror ma di genere diverso. Qui scrive la sceneggiatura insieme a Sjón Sigurdsson che è un poeta islandese, autore di alcuni testi per Björk e della sceneggiatura del film Lamb, a unire saghe islandesi e miti norreni per riprendere la nota storia reinserendola nel suo contesto originale, molto più primitivo e violento.

Siamo nell’895, il nobile Re Aurvandil torna a casa con seguito di prigionieri-schiavi dopo l’ennesima scorreria, e non fa in tempo a ricongiungersi con la moglie e il figlioletto Amleth che viene crudelmente assassinato dal fratello Fjölnir, che si prende in bottino la cognata. Amleth fugge sconvolto, cresce all’interno di un’altra tribù e diventa un giovane uomo esattamente simile a chi lo circonda, uguale a coloro da cui è fuggito tanti anni prima. Ossia una belva assassina.

Un Principe che di amletico ha ben poco.

Del resto non ci sono buoni e cattivi, e la sopraffazione in base alla legge del più forte è l’unica regola: o sottometti o verrai sottomesso. E i diritti umani erano ben lungi dall’essere (ipocritamente) approvati. Quando si conquistava un territorio, via con ammazzamenti spietati, violenze sulle donne, saccheggi e bambini bruciati vivi per liberarsi della generazione successiva.

Amleth sopravvive aggrappandosi a un solo mantra: vendicare il padre, salvare la madre, uccidere lo zio. Quando apprende che quest’ultimo è stato a sua volta assaltato e costretto a emigrare dalla Norvegia all’Islanda, decide di raggiungerlo e portare finalmente a termine quanto gli è stato predetto. Perché è il Destino che ci governa, e conduce su una strada prefissata.

Si finge schiavo, riesce a farsi vendere allo zio ignaro, che nel frattempo ha figliato con la madre di Amleth. Anche lui però non è rimasto solo, ha infatti fraternizzato con un’altra prigioniera fatta schiava, Olga (Anja Taylor-Joy), animata da una sete di vendetta pari alla sua. Sfruttando le stesse superstizioni nelle quali anche lui crede, il senso di terrore dell’uomo primitivo nei confronti degli orrori della natura, il mito del Valhalla e delle feroci Valchirie, porta allo sfascio la comunità nella quale si è introdotto. Scopre però altre verità sulle sue origini e sulla madre e, incapace di sottrarsi, va incontro al suo destino tragico.

È nota l’attenzione di Robert Eggers nei confronti della messa in scena dei suoi lavori, con citazioni pittoriche, simbolismi e allegorie. E qui ha avuto a disposizione novanta milioni di dollari per due ore e venti di film (anche se i costi sono aumentati dopo il blocco della lavorazione a causa del Covid). Che si vedono nell’accurata ricostruzione ambientale, sia quanto alle scenografie, sia nella messa in scena di lunghe sequenze con antichi canti popolari, riti di iniziazione e cerimonie religiose (che allora contemplavano anche sacrifici umani).

Una regale famiglia in un fuggevole attimo di apparente serenità.

È un omaggio alle origini di una popolazione passata alla storia come portatrice di barbarica violenza e basta, quasi un tardivo risarcimento come in certi film degli anni ’6/70 per quanto riguardava i nativi americani. C’è anche la messa in scena di una partita di uno sport che sembra un incrocio fra rugby e football americano, giocato con la violenza che si può immaginare.

Non mancano ovviamente scene d’azione di violenza estrema, saccheggi terribili, ammazzamenti efferatissimi, da far definire il film a modo suo un horror. Anche il panorama naturale si fa protagonista, influenzando le azioni dei personaggi, con lande desolate e ghiacciate (siamo in Islanda ma il film è girato in Irlanda del Nord). Misere sono le abitazioni e anche la Reggia è una capanna appena più spaziosa (come nel Macbeth di Justin Kurzel); l’esistenza è durissima anche per i potenti, figurarsi per gli altri.

Sarà per questo che in quegli anni l’Impero romano, sviluppato sulle sponde del Mediterraneo, aveva già dato il suo meglio, iniziando la sua decadenza. Nel film alcune parti sono parlate in dialetto norreno, anche se la maggior parte dei dialoghi è in inglese con accenti slavi diversi, per esigenze di produzione internazionale (abbiamo visto il film in originale, chissà il doppiaggio italiano come se la caverà).

Lo svedese Alexander Skarsgård, per questo progetto da lui lungamente voluto, mette a diposizione il suo fisico imponente, costringendo per tutto il film il suo metro e 94 in una postura ingobbita, gorillesca, a sottolineare l’abbrutimento cui la vita lo ha piegato. Anya Taylor-Joy, la sua amata Olga, è enigmatica e glaciale come sempre. Breve la parte di Ethan Hawke, il re padre, mentre Claes Bang, lo zio omicida (le serie The Affair, Dracula, i film The Square, Millennium) alla fine è quello che ne esce meglio. Nicole Kidman, la madre, è irrimediabilmente fuori ruolo, in modo così palese da mettere a disagio e vanificare l’unica “scena madre” che le è affidata. Björk e Willem Dafoe, giullare/sciamano, compaiono di sfuggita.

Il Principe con quella che potrebbe essere la sua Principessa.

Per essere sicuro della veridicità della messa in scena, per rendere al meglio fanatismi religiosi e riferimenti mitologici, Eggers ha coinvolto nella sceneggiatura professori universitari e storici. Interessanti le musiche di Robin Carolan e Sebastian Gainsborough, autori di elettronica sperimentale, che mischiano le loro sonorità a canti e strumenti di quei tempi lontani.

Nella sua riproposizione in chiave di ricerca antropologica della leggenda che ha generato il personaggio di Amleto, Eggers eccede però nel folkloristicamente corretto, scivolando troppo spesso nel grottesco. E mette in scena troppo di tutto: troppe urla belluine, troppi ruggiti e ululati, troppi sbudellamenti e arti mozzati, testate e mazzate, troppo caricate le interazioni fra i personaggi, troppo insistite le scene dei vari rituali. Come dicevano le nostre nonne, il troppo stroppia e genera rigetto.

Si capisce il desiderio di raccontare una storia particolarmente corrusca, perché è da leggende come queste che ha proseguito la storia dell’umanità, per arrivare ai nostri giorni di cui c’è sempre poco da vantarsi. Ma nel suo piccolo ha fatto meglio Matteo Rovere con il Il Primo Re. Forse Eggers, in un film che sembra ambire a essere anche trattato antropologico, ci vuole ribadire che era già tutto così, che leggende e fiabe hanno edulcorato la narrazione, che poco è cambiato nella belluina aggressività degli esseri “umani” dagli esordi?

E in questa riproposizione da tesi universitaria c’è il desiderio di mostrare una storia come davvero si è svolta senza imbellimenti da fantasy commerciale, come in un prodotto pur brutale come Game of Thrones (e peramordiddio non parlategli di Vikings)?

Nicole Kidman nel film attraversa decenni restando sempre etnicamente chic.

Sopraffatti da tanto sbraitare, da troppo sangue e fango, dalla bestialità (non si offendano i poveri animali) dei protagonisti, dalla cupezza complessiva di un’operazione ibrida per noi non riuscita (ossia conciliare il cinema d’autore con un blockbuster), ci sentiamo di rimpiangere Conan il Barbaro, onesto film del 1982 diretto da John Milius ma scritto da Oliver Stone, a partire dalla fonte letteraria di Robert Howard, un film che probabilmente Eggers giudicherà come un trionfo del trash ma che almeno non comunicava questo fastidio. E se in certe scene non si ride è perché si è impegnati a scuotere la testa perplessi dall’altrettanto trash ma “d’autore”.

Concludendo viene proprio voglia di dire: Robert, la prossima volta anche meno.