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Transference - recensione

L'esperiemento di Elijah Wood è il The Blair Witch Project dei videogiochi.

Transference è un prodotto paradossale, controverso, complicato, difficile, estremamente affascinante, imprevedibilmente efficace ed efficiente nel trasmettere le sensazioni ed emozioni che si prefissa di trasferire, per l'appunto, all'utente di turno. È un titolo in tutto e per tutto metareferenziale, un esperimento nato probabilmente da premesse sbagliate, realizzato da un team che chiaramente non padroneggia alla perfezione le basi del game design, inspiegabilmente illuminante e a tratti persino geniale.

Per fare un paragone tutt'altro che casuale, visto che stiamo pur sempre parlando di una casa di produzione cinematografica fondata, tra gli altri, da Elijah Wood, supportata solo per l'occasione da Ubisoft Montreal, potremmo affermare che Transference è il The Blair Witch Project dei videogiochi, un qualcosa che pur tradendo e traviando molti assiomi sul come si giri e si diriga un lungometraggio, sul come si sviluppi un videogioco nel nostro caso, non solo si rivela un prodotto valido, ma quasi inventa un genere a sé, un modo di intendere la regia che ha in seguito ispirato altre pellicole come Paranormal Activity e Cloverfield.

Transference non arriva a tanto. Si inserisce nella tradizione ormai consolidata dei walking simulator, "limitandosi" ad un'indagine, introspettiva e a tratti terrificante, delle capacità cognitive della mente umana, regalandoci una serie di fotografie, spesso sfocate e sovrapposte, in cui orientarsi nel tentativo di uscirne con delle risposte, scoprendo il dramma che ha travolto e distrutto per sempre l'esistenza della famiglia Haynes.

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L'intera esperienza si inscena e si consuma all'interno del palazzo in cui viveva Raymond con moglie e figlio. Si tratta, a tutti gli effetti, di una simulazione virtuale, di una ricostruzione digitale creata fondendo tra loro ricordi, percezioni, sensazioni dei tre membri del nucleo familiare, dettaglio che rappresenta la vera particolarità di questo viaggio che può essere intrapreso sul comune schermo di casa, ma che solo con un visore per la realtà virtuale riesce a dare il meglio di sé.

Sì, perché solo favorendo la corrispondenza esatta tra utente e avatar, la cui identità è inizialmente celata, si percepisce e si comprende meglio il senso, il significato nascosto tra i poligoni e le texture che compongono il primo tentativo di SpectreVision nel mondo dei videogiochi. È anche un discorso prettamente estetico, perché i designer del team di sviluppo hanno voluto restituire soprattutto a livello visivo, oltre che uditivo, il disagio, il fastidio, la difficoltà nel farsi strada all'interno di menti malate, trasferite a livello digitale come il titolo lascia intendere, che hanno vissuto un grave dramma a causa dell'ambizione, divenuta ossessione, di Raymond nei confronti della sua rivoluzionaria ricerca.

Al di là dei più classici jump scare, frutto di apparizioni improvvise ed inquietanti, esplorando l'abitazione, stanza dopo stanza, si devono fare i conti con colori accesi, compenetrazioni tra oggetti, strani effetti grafici ed una colonna sonora che spesso e volentieri si arricchisce, oltre che di strazianti richieste d'aiuto da parte del piccolo di famiglia, di suoni ripetitivi, di boati, di sinistri sussurri.

La narrazione si sviluppa anche attraverso brevi video in live action che hanno (quasi) come unico protagonista Raymond Haynes.

Bisogna avere un po' di fegato, insomma, per quanto non si raggiungono i livelli di un Silent Hill qualsiasi, non fosse altro che Transference muta spesso e volentieri registro, abbandonando,a tratti, le tinte horror in favore di un tipo d'esperienza più ragionato, incentrato, quando non sul reperimento di documenti e video utili a comprendere meglio lo stato dei fatti, su enigmi da risolvere, prove imprescindibili per "sbloccare" nuove stanze della casa.

Questi rompicapo sono quasi tutti basati sul concept del gioco stesso, ovvero la convergenza di più menti in un unico spazio digitale, la riproduzione di ambientazioni realmente esistenti, tramite i differenti punti di vista di tre diversi individui. Ciò significa che spesso e volentieri dovrete ritrovare degli oggetti esplorando lo stesso scenario, ma filtrato attraverso una diversa coscienza, attivando, più o meno volontariamente, dei veri e propri interruttori che vi permetteranno di scivolare da un membro all'altro della famiglia Haynes.

Non è un meccanismo sempre chiaro, fattore che rende a tratti confuso il gameplay di Transference, ma allo stesso tempo estremamente affascinante. Manca la guida, la visione di un game designer esperto e lo si vede nell'andamento dell'esperienza che procede quasi per salti, con un ritmo tutt'altro che lineare e costante. Non è forzatamente un male, tanto più che si viene a capo del mistero in circa tre ore, durata che potremmo quasi definire cinematografica e per questo poco consona al medium di riferimento, almeno per una parte d'utenza.

Tra le fonti d'ispirazione di Transference, verrebbe anche da citare l'inquietante P.T., demo, nonché prologo interattivo di quel Silent Hills realizzato da Hideo Kojima che non vedrà mai la luce.

In realtà, anche la scarsa longevità non è affatto un difetto, soprattutto se si sceglie di giocare a Transference con il visore. Grazie alla durata contenuta, motion sickness permettendo, si può decidere di godere in un'unica sessione dell'intera vicenda, modalità di fruizione caldamente consigliata. Così facendo, difatti, si sperimenta appieno il disagio, e anche il progressivo ed effettivo affaticamento fisico, che sottende la ricerca, l'analisi psicologica ed antropologica all'interno di menti alterate, tradotte a forza, forse malamente, in codice binario.

Al di là degli enigmi, piuttosto semplici da risolvere, Transference è un'esperienza visiva e sonora difficile da descrivere, spesso ignara di certe convenzioni di game design, a suo modo originalissima pur rifacendosi ad un genere, quello dei walking simulator, tutt'altro che incline all'innovazione, quanto meno sul piano prettamente ludico. La produzione di SpectreVision punta a (con)fondere l'ossessione di Raymond, con quella del videogiocatore, per forza di cose spinto a scoprire cosa sia andato storto, quale sia stato il reale catalizzatore che ha istigato lo scienziato a sacrificare tutto, pur di raggiungere il suo intento.

La puntualità e la precisione con cui vengono elargiti indizi, elementi che confondono ulteriormente le acque e risposte parziali, svela la grande abilità degli sceneggiatori che hanno dato il loro contributo al progetto, creando, insieme al magnetico art design a tratti allucinato, un comparto artistico di tutto rispetto, capace, da solo, di reggere sino ai titoli di coda, nonostante qualche calo di ritmo, nonostante degli enigmi tutt'altro che geniali.

La strepitosa fotografia, dominata dalle luci al neon, è tra i punti di forza del gioco.

Transference non è un gioco per tutti. Chi non possiede un visore per la realtà virtuale non è affatto escluso a priori, ma va da sé che solo con PlayStation VR, HTC Vive o Oculus Rift si può godere dell'originaria visione degli sviluppatori. Bisogna inoltre essere inclini ad una narrazione volutamente lacunosa, complessa, enigmatica, in certi casi metaforica e fortemente metareferenziale. La creatura di SpectreVision, del resto, funziona proprio quando sfonda la quarta parete e cerca di incentivare la totale immedesimazione del videogiocatore nell'avatar, persino abbandonando la trama principale dell'avventura, per introdurre tematiche prettamente filosofiche, morali, gnoseologiche.

Un esperimento insomma riuscito, quello di Elijah Wood, ma che per alcuni resterà incomprensibile e persino indigesto. Chi saprà guardare oltre la sua semplice apparenza di walking simulator con una spruzzatina d'horror, scoprirà un testo ricco di spunti, riflessioni, rimandi, intriganti punti di partenza per un'indagine sull'individuo e sulla sua capacità di interpretare la realtà.

8 / 10