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Bohemian Rhapsody - recensione

Per chi l'ha visto e per chi non c'era…

Ci sono musicisti la cui personalità sovrasta la qualità della loro musica. A volte vale il contrario: musiche bellissime e personalità deboli, fasulle. Poi ci sono personalità come Freddie Mercury e musiche come quelle dei Queen. What Else?

L'attesissimo film (atteso dai fan anche con qualche palpitazione) diretto da Bryan Singer, si è mostrato finalmente ai nostri occhi di fan, e non ci ha deluso. La produzione ha sofferto di qualche traversia produttiva, si era parlato di un interprete, Sacha Baron Cohen, poi di un altro, Ben Wishaw; il regista doveva essere Dexter Fletcher, poi la scelta definitiva è caduta su Bryan Singer e su Rami Malek. E per ulteriori problemi sopraggiunti è rientrato Fletcher, in modo non ufficiale però.

Ma se la scelta del cast era basilare, importantissima era anche la sceneggiatura, che è stata scritta da Anthony McCarten (La teoria del tutto, L'ora più buia) e Peter Morgan (Frost/Nixon, Il maledetto United, The Crown). Immaginiamo con non poca fatica, per dare forma armonica (e rispettosa: il film è stato controllato passo passo dai Queen, Brian May in testa) a storia e leggenda, a pettegolezzi e aneddoti, cercando di raccontare la verità con qualche inevitabile licenza "poetica" (sulla datazione di alcuni eventi privati, il film si discosta a tratti da quanto dicono le bio ufficiali; qualche fatto anche importante viene sorvolato).

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Bohemian Rhapsody prende il titolo dal mitico brano che li fece scoprire al mondo, osteggiato dal produttore Ray Foster perché troppo strano e troppo lungo (e cosa diavolo vorrà dire Bismillah!), che provoca l'esplosione del successo planetario. Si tratta di un momento spartiacque: c'è stato un prima e ci sarà un dopo, ma tutto sarà diverso. E si propone di narrare l'avventura di un gruppo ancora ben vivo e in attività, e del suo lead singer che non c'è più, sforzandosi di rifare i personaggi più veri del vero, selezionando un insieme di attori che ha dovuto eseguire un'operazione di mimesi totale, studiando accuratamente gli originali, con un risultato impressionante.

La regia di Singer riesce a rendere epica e toccante una storia che in fondo è simile a tante altre, che segue un arco vitale quasi scontato. Il solito gruppo di amici, che nei primi anni '70 decide di dare la scalata al successo, tutti ferocemente convinti delle proprie capacità, poi velocemente travolti dalla fama, pressati dal successo, tutti con un punto di rottura, chi meno chi più. E nei Queen quello più vulnerabile era Freddie Mercury, per tanti motivi quali origine etnica, ambiente famigliare e inclinazioni sessuali.

Il film si apre sul 13 luglio 1985, ore 18,41, al Live Aid, pietra miliare della musica del secolo scorso. I Queen hanno partecipato in extremis, dopo un momentaneo allontanamento fra i membri della band, quando già Mercury aveva avuto le prime avvisaglie della sua malattia, con un'esibizione semplicemente esaltante. Che vedremo per esteso solo alla fine, perché il film parte subito a raccontarci la storia del gruppo dal principio, seguendo i protagonisti attraverso tutte le fasi che ci riagganceranno a quel 13 luglio.

Quattro ragazzi davanti all'albero della cuccagna.

Tutto ruota attorno a Freddie ovviamente, nel bene e nel male, nella costruzione del gruppo e nella distruzione della propria vita privata ("And bad mistakes I've made a few"). C'è il primo amore con Mary, unica donna della sua vita, che resterà la sua migliore amica fino alla fine, e poi l'accettazione della propria omosessualità, mai dichiarata però, il susseguirsi stordente dei dischi e dei tour, gli eccessi e la perdita di controllo, le ingenuità, le imprudenze, le liti con gli amici e la riappacificazione ("I've done my sentence but committed no crime").

Non una semplice interpretazione ma una vera e propria reincarnazione, quella di Rami Malek, aiutato da trucco prostetico forse un filo eccessivo, ma la fisicità è tutta sua. Anche gli altri membri del gruppo sono stati scelti per la perfetta aderenza fisica, con un effetto a tratti straniante (Gwilym Lee è Brian May, Ben Hardy è Roger Taylor, Joseph Mazzillo fa John Deacon), ma tutti assai ben delineati.

Forse per i personaggi di contorno sono state prese più libertà, ad esempio quello che è il "cattivo" del film, Paul Prenter, è un personaggio esistito, nel quale però si fa sintesi probabile di tutti i gatti e le volpi che hanno circondato Mercury, trascinandolo, isolandolo, sfruttandolo. La ricostruzione dei rapporti interni alla band è plausibile e la parabola privata di Freddie, al di fuori del cono di luce abbagliante della popolarità, viene illuminata da una luce morbida che suggerisce moventi per la sua condotta, giustificazioni per tanti errori rispetto per la dignità finale ("I've paid my dues, time after time").

Un'amicizia è per sempre.

La narrazione è scandita da canzoni che hanno la potenza di inni collettivi come Bohemian Rapsody, Somebody to Love, Show Must Go On, We Will Rock You, We Are The Campions, Radio Gaga e una delle più belle canzoni d'amore disperato di tutti i tempi, Who Wants To Live Forever (parole che toccano il cuore di molti fan sconsolati, quando muore un idolo molto amato e si deve andare avanti a vivere senza di lui).

Ma, ci si potrebbe chiedere, perché si fanno film di finzione su personaggi famosi? Perché non accontentarsi di leggere la loro storia in una biografia o vedere un rigoroso documentario che riassuma le loro vite con storica precisione, senza interpretazioni particolari, senza riletture soggettive? Sui Queen ricordiamo ad esempio il bellissimo Days of Our Lives.

La risposta è che un film di finzione, pur con le sue discutibili ricostruzioni di momenti intimi, privati e privatissimi, di dialoghi avvenuti a porte chiuse, di pensieri che mai sapremo davvero, di supposizioni e illazioni insomma, coinvolge di più, emoziona, trascina (quando invisibili siamo alle spalle di Freddie che avanza verso il proscenio del palco di Wimbledon per il Live Aid, jeans e canottiera bianca, cintura e bracciale borchiati, abbiamo avvertito un leggero brivido).

Quando l'attore diventa il personaggio.

Una fiction ci fa stare in quelle stanze, in quegli studi di registrazione, su quei palchi, in quei letti, davanti a quegli specchi e non è un semplice piacere voyeuristico. È un riappropriarsi di una vicenda umana, di uno dei personaggi più amati che ci ha accompagnato in un lungo pezzo di vita grazie alla musica, magico tramite che mette in connessione tante anime, marcatore inamovibile di ricordi.

Due fate campeggiano sul logo dei Queen, a rappresentare Freddie Mercury, la Regina delle Regine, e sopra spiega le sue ali una Fenice, ma nessuno risorgerà dalle sue ceneri, nessuno come lui, con il suo incredibile misto di arroganza e insicurezza, di orgoglio e fragilità, di esibizionismo e timidezza, mai sazio di sesso, sempre in cerca di amore.

E ascoltando Somebody to Love, come non pensare al video in cui George Michael prova il pezzo a Wembley nel '92 per il tributo a Freddie morto l'anno prima, mentre David Bowie ascolta appoggiato alla parete e applaude? Sono morti tutti: come fare a non commuoversi?