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Das Boot - recensione

Nella pancia di un U-Boot

È terminata da poco la prima serie-evento di Sky per questo 2019: Das Boot. Un seguito sotto forma di serial televisivo, di quel Das Boot (da noi conosciuto come U-Boot 96) che, a distanza di trentotto anni dalla sua uscita, ancora oggi è riconosciuto come uno dei migliori film di guerra mai realizzati.

La storia di questa serie che batte bandiera franco-tedesca ci porta nel 1942, un anno dopo gli eventi del film originale. Due sono i filoni narrativi principali che si sovrappongono solo idealmente, senza mai intrecciarsi a livello di scene. Da una parte abbiamo le disavventure del sommergibile U-612 in missione in acque nemiche, dall'altra troviamo invece la resistenza di La Rochelle impegnata a combattere la sua guerra contro i nazisti.

In mezzo a questi due archi narrativi, ci sono le figure dei fratelli Strasser: Frank Strasser, marconista della Kriegsmarine che viene assegnato (suo malgrado) all'U-612 e la sorella Simone Strasser, interprete e traduttrice assegnata al comando della Marina Tedesca.

All'interno di molte puntate si potrà percepire la tensione montare, specialmente tra i vari ufficiali e il comandante.

Nel corso degli otto episodi che compongono la prima stagione (e che trovate all'interno del box sets di Sky) vivremo l'evolversi di due vicende che si sviluppano contemporaneamente su terra e su mare. Un rischio, quello corso dagli sceneggiatori, che poteva portare a un netto sbilanciamento di una o dell'altra vicenda; Das Boot, invece, riesce a mantenere lo spettatore perfettamente incollato allo schermo per tutta la durata delle otto puntate, senza mai far sembrare insufficiente il tempo narrativo dedicato a entrambe le timeline.

La serie di Sky ha avuto la bravura di riprendere alcuni dei concetti che avevano reso incredibile il lungometraggio. La parte sull'U-Boot è dannatamente claustrofobica, nelle inquadrature di quei cunicoli si può respirare il gasolio, l'umidità e il sudore dei sommergibili; si possono percepire le condizioni che i marinai spesso erano costretti a sopportare, ma più di ogni altra cosa, è un perfetto spaccato umano e apolitico sulla paura del singolo di fronte al conflitto, e sulla necessità di dover portare avanti una guerra che, probabilmente, non appartiene a nessuno di quei marinai.

Il "miracolo" di Das Boot sta proprio in queste ultime parole scritte, perché nonostante si stia parlando di nazisti, ognuno dei singoli marinai ha le sue convinzioni e le proprie paure personali, e quasi ci si dimentica che stiamo parlando di nazisti e di volti così vicini alla gioventù hitleriana. E nelle loro fragilità, ritroviamo le nostre. Inoltre, vale la pena ricordarlo, la Kriegsmarine era, stando a molti storici, il reparto con meno influenze politiche dell'intero movimento armato tedesco. Anche questo elemento traspare (come nel film) in maniera piuttosto limpida.

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A fare da contraltare a questa sorta di pietas c'è la controparte più spietata e conosciuta del terzo Reich, quella violenta e oppressiva impersonata da Hagen Forster e da quella Repubblica di Vichi, piegata al volere hitleriano. Qui si districa la giovane Simone che, per aiutare il fratello e la sua famiglia, si troverà a convivere tra due fuochi piuttosto pericolosi: Reich e resistenza.

In queste scene tutto diventa più spy/thriller, alternandosi alle più classiche situazioni di guerra relegate alle scene dell'U-612. Una scelta vincente, non solo per l'ottima recitazione da parte di tutti gli attori coinvolti, ma anche e soprattutto per un ritmo e dei validi cliffhanger, che lasciano lo spettatore attaccato allo schermo fino ai titoli di coda dell'ottava puntata.

Era da tempo che non capitava una serie così valida ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale (probabilmente dall'uscita di Band of Brothers/The Pacific) e, al netto di una seconda stagione già confermata, non possiamo che incoraggiarvi a schiacciare PLAY e gustarvela dall'inizio alla fine!