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Lightyear Recensione, la vera storia di Buzz porta a una riflessione…

Pixar, Pixar, dove sei?

Chi era il mitico Buzz Lightyear, che nel primo Toy Story, prodotto da Pixar nel lontanissimo 1995, metteva in crisi l’equilibrio del gruppetto di giocattoli prediletti da Andy, il ragazzino di casa?

A quei tempi Pixar era ancora la casa di John Lasseter, che con quel film firmava il primo lungometraggio interamente in CG insieme a nomi che sono rimasti anche dopo di lui quali Pete Docter ed Andrew Stanton.

Buzz (con la voce di Tim Allen) rischiava di scalzare dal cuore del ragazzino l’amato cowboy Woody, compagno di tante avventure terrestri, mentre Buzz (come Aldrin) prometteva emozioni “spaziali”. Tronfio e narcisista, munito di accessori tecnologici come voce elettronica, ali a scomparsa e finto laser nel braccio, aveva fatto fatica a inserirsi nel gruppo storico.

In seguito però diventavano tutti i migliori amici e li avevamo ritrovati insieme anche nei tre film successivi, in cui Buzz aveva mitigato le asperità del suo carattere e l’alleanza si era fortificata nonostante qualche traversia sentimentale legata alla bella cowgirl Jessie. Visto il gradimento del personaggio, nel 2000 era stata realizzata anche una serie tv, Buzz Lightyear da Comando Stellare, preceduto da un film-pilota.

Un eroe tutto d’un pezzo e la sua insolita IA.

Da cosa derivavano i suoi difetti, la sua sfacciata sicurezza di sé e delle proprie possibilità? Ne aveva ben donde Buzz perché, come scopriremo, lui era un giocattolo basato su un eroe vero, un eroico ranger dello spazio. E adesso arriva sui grandi schermi il film vero e proprio, uno spin-off come si usa dire, in cui facciamo conoscenza del personaggio sempre un po’ retorico e logorroico, alle prese con l’esplorazione di un pianeta sconosciuto.

Che si rivela un posto da cui levare immediatamente le tende ma purtroppo invece qualcosa va molto storto e agli umani tocca arroccarsi in una cittadella fortificata, mentre l’ostinato Buzz prova e riprova a trovare un sistema per fare ritorno a casa. Quello che non può immaginare sono gli effetti che il suo andirivieni spaziali stanno provocando.

Ad affiancarlo nella sua avventura, oltre a un gruppetto di umani non all’altezza dei suoi standard, ci sarà un nuovo personaggio, un’IA con l’aspetto di un tenero gattino. Che dovrà impegnarsi molto per vincere i pregiudizi che Buzz nutre verso l’eccessiva tecnologia, quasi un Maverick di altre ere.

Tre brevi scene nei titoli di coda (una anche dopo l’elenco dei doppiatori), in originale a dare voce a Buzz non è lo storico Tim Allen ma Chris “Captain America” Evans. Dirige Angus MacLane, uomo Pixar, che scrive la storia insieme a Jason Headley (Onward). Epiche le musiche di Michael Giacchino, già autore della colonna sonora di molti altri film Pixar.

Un equipaggio non all’altezza degli standard dell’Eroe.

Lightyear si può definire divertente, simpatico, carino; qualche personaggio è più riuscito, qualcuno ha una vena di tenerezza in più. Ovviamente da un punto di vista visivo è eccezionale. Purtroppo, nel complesso è un film che non resta impresso e, fosse per questo ritratto di Buzz, noi non ameremmo lui e il suo “verso l’infinito e oltre” come lo abbiamo amato grazie alle serie Toy Story. Qui l’unico tema interessante viene un po’ buttato via, un puro pretesto per far incontrare un Buzz giovane e altruista e la sua versione anziana, indurita dalla vita che ha passato e tesa solo a un risarcimento che sente come dovuto.

Il tema sarebbe che andiamo avanti a vivere, compiendo azioni che ci portano in una direzione invece che in un’altra e, mentre lo facciamo, restano impigliate nel nostro cammino altre persone, la cui sorte anche è determinata da questo viaggio. Se di colpo, voltandoci indietro, fossimo scontenti e decidessimo (avendone i mezzi tecnologici) di tornare al punto zero, cancellando tutto e tutti, sarebbe una decisione saggia? Non sarebbe puro egoismo e indifferenza nei confronti di chi ci è stato vicino in quella linea temporale?

Manca del tutto la capacità (l’intenzione?) di ambire a qualcosa di più che a far blandamente sorridere, manca quella capacità di colpire al cuore come è successo con tanti film precedenti. Già la serie dei Toy Story lasciava filtrare temi serissimi come la crescita, la paura dell’abbandono, la solidarietà fra i più deboli, l’elaborazione di quell’inevitabile lutto che si prova quando si viene sostituiti nel cuore di qualcuno, con il passare degli anni. Perché nella vita si cambia e la nostra strada è disseminata di giocattoli dimenticati, case cambiate, posti abbandonati, amici e abitudini perdute, amori finiti.

Sempre toccanti oltre che divertenti sono stati Monsters & Co, Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili (gli ultimi due hanno detto sulla difficoltà di essere genitori più di molti trattati sociologici) e poi il simpatico Cars, il tenero Ratatouille. Con Wall-E i grandissimi artigiani della Pixar, in vena poetica particolare, avevano portato sullo schermo una storia che faceva più meditare che ridere, ricca di metafore e messaggi, anche se di fondo sentimentale e romantica.

Una lotta impari con un colosso del Male.

Sul capolavoro Up concordiamo tutti: se la vita non è stata avventurosa come si fantasticava da giovani, se non siamo riusciti ad arrivare alle mitiche cascate del Paradiso, forse si può volgere lo sguardo più vicino ed accorgersi quale bellissima avventura sia stata la nostra semplice esistenza quotidiana (purché vissuta con amore).

Inside Out è stato un film tanto geniale visivamente quanto toccante, che ciascuno poteva riferire a sé stesso, scritto su fondate meccaniche psicologiche. Insieme a Coco (morire si muore tutti, ma solo lo spirito di chi è ricordato permarrà in eterno), questi ultimi titoli probabilmente potrebbero vantare il primato delle lacrime sparse dal pubblico. Fra i film meno riusciti possiamo annoverare Ribelle - The Brave, Il viaggio di Arlo e, in era post-Lasseter, Onward e il recentissimo Red. Gli ultimi due film sono davvero storie da poco, che hanno rimasticato temi già sfruttati sotto una patina di innovazione (ridiamo ancora pensando allo scandalo social per aver parlato di mestruazioni in Red).

Soul è stato un film gradevole, con un suo messaggio (godersi l’attimo, guardarsi intorno trovando la gioia nelle piccole cose, vivere con tante piccole passioni), sprecato però dall’immediato passaggio in streaming causa pandemia. Ha fatto ridere e alla fine inumidire l’occhio Luca (altro caso di insensato direct to streaming), con il suo discorso mai pedante sulla “diversità” e un invito a non nascondersi, perché prima o poi anche solo una lacrima potrebbe tradirci. Ma siamo lontani dai capolavori del bel tempo che fu.

É già da un po’ (oseremmo dire dall’uscita di Lasseter nel 2018) che i film della gloriosa casa non sono più quelli di una volta, dai quali si usciva dopo esserci appassionati e divertiti ma anche con l’occhio lucido, magari solo per un attimo, solo per un dettaglio, ma capace di suscitare echi nell’anima. Qui, in Lightyear di echi non ce ne sono più. Ci sono battute, effetti sonori e musica. E basta.

Come rapportarsi con un gatto parlante?

Altre erano le storie che ci aspettavamo dalla Pixar, storie che ci toccavano a tal punto da farci indagare su noi stessi per comprendere davvero quale nervo scoperto avessero toccato, quale corda dell’animo avessero fatto vibrare in noi e magari non in altri, perché è facile mettere insieme qualche elemento genericamente commovente, ma le narrazioni erano sempre più accurate, come se davvero descrivessero situazioni attraverso le quali gli autori erano passati anche loro. Che fossimo adulti o ragazzi, genitori o figli, che rimpiangessimo o volessimo dimenticare.

Così in ogni film qualcuno ha trovato qualcosa di personale, si è riconosciuto e ritrovato, come in un abbraccio fra gente che si vuole bene. Ma gli anni sono passati, i personaggi ai vertici dell’azienda sono cambiati, se giustamente o ingiustamente starà a ciascuno giudicare. Da un punto di vista qualitativo, però il livello si è appiattito. Sarà l’influsso di Disney, oggi forse più libera di imporre le sue regole d’ingaggio?

Chissà cosa sarà, saremo noi troppo esigenti, con la pretesa di essere sempre travolti da poetiche visioni e toccanti storie, coinvolti in buffe avventure insieme a personaggi in cui immedesimarci?

Siamo stati viziati da anni di piccoli capolavori, sappiamo che niente è per sempre, eppure non ci rassegniamo che questo sia successo anche nella gloriosa Pixar.