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Yaksha Ruthless Operations Recensione: Un noir coreano di complotti, spie, eroi e traditori

Le troppe regole intralciano la Giustizia?

A Seul, Corea del Sud, l’integerrimo procuratore Han Jin-hoon si illude di aver incastrato per corruzione e aggiotaggio il potentissimo presidente di una corporation. Vede però il suo caso distrutto da un’imprecisione formale ed essendo uno assai ligio ai regolamenti, si auto flagella e si dimette, finendo a lavorare in un ufficetto del servizio nazionale di Intelligence.

Da lì finisce inviato dalla sua responsabile a Shenyang, in Cina, la città più popolosa del Nord Est, pochi grattacieli luccicanti e tanta industria pesante. E data la sua posizione vicino a due confini e al Giappone, ci sono tante spie, coreane, cinesi e giapponesi. Viene mandato per indagare su supposte irregolarità da parte del locale ufficio di intelligence coreana, che inghiotte soldi ma non partorisce risultati.

Là Han pensa di trovare lassismo e corruzione e l’ostilità omertosa con cui viene accolto sembrano confermarlo. Ma non tarda a scoprire la reale situazione, quando fa la conoscenza con il responsabile della sede, Yaksha, un veterano dell’ambiente, uomo che nel prologo abbiamo visto è meglio non avere contro.

Tutto si gioca nella lotta fra spie coreane e giapponesi, anche se la scusa è ritrovare il solito contabile che avrebbe fatto sparire miliardi dei fondi neri del regime di Kim Jong-un. Sono invece le spie giapponesi al centro dei nuovi giochi d’equilibrio e di potere in un’area in enorme espansione, che operano su tutto il territorio attraverso una fitta rete di infiltrati, reclutati attraverso ricatti spietati.

Un “mucchio selvaggio” votato alla vittoria della giustizia.

Han si troverà incluso suo malgrado in una squadra durissima di gente che ricorre a ogni mezzo per conseguire il proprio scopo, una vera famiglia leale e solidale di soldati che combatte ad armi pari con i nemici quanto a disinvoltura criminale. Del resto, il fine non può giustificare i mezzi solo per i cattivi.

Yaksha è un discreto thriller di spie, con una trama plausibile e alcune rivelazioni interessanti su come vanno le cose in quel lontano angolo di mondo (in giro non ci sono solo le spie americane, inglesi, russe), un noir d’azione con scene ben girate dove si privilegiano sparatorie e inseguimenti rispetto ai combattimenti corpo a corpo, che sono pochi e non coreografati.

Una bella fotografia illumina scene spesso in notturna e sobri sono i personaggi, con l’eccezione del “giustiziere” Yaksha, interpretato da Sol Kyung-gu, con la sua faccia un po’ alla Charles Bronson. Pulitino e rigidino come ruolo richiede è Park Hae-soo, l’intransigente uomo di legge che non capisce le regole d’ingaggio di un ambiente nuovo, il do ut des, l’azzardo di vite quotidianamente a rischio.

Consigliamo la visione in originale perché il film è parlato in coreano ma anche cinese e giapponese, e amiamo sentire le diversità dei linguaggi (coreano e giapponese si somigliano leggermente rispetto al cinese).

Un procuratore legale costretto a uscire dal suo ufficio.

Yaksha, diretto da Hyeon Na, alla sua seconda regia, prende il nome da una divinità protettrice di foreste e villaggi nella mitologia induista. Il film è un ulteriore esempio di quale buona salute goda il cinema (e le serie televisive) della Corea del Sud. Non è un capolavoro ma semplicemente un buon film di genere, un noir di spie senza iperboli ed eccessi melodrammatici che solo nel finale si concede qualche tono alla Mission Impossible, e che offre la solita retorica sugli uomini forti e soli, e sulle amicizie virili. Il film conferma inoltre la storica antipatia fra coreani e giapponesi.

Il finale un po’ pirotecnico (ma prevedibile) lascia addirittura una porta aperta verso un sequel, se la storia del procuratore distrettuale che pensa che “la giustizia non ammette ingiustizie” e l’agente che vuole “difendere la giustizia con ogni mezzo a disposizione” riscuotesse gradimento.