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Eurogamer festeggia i 35 anni di The Legend of Zelda

I ricordi e le avventure della redazione.

Dal 1986 a oggi, The Legend of Zelda non è stato soltanto sinonimo di avventura, ma anche di innovazione videoludica. Dall'invenzione dei salvataggi al Z-targeting, dall'interazione con gli ambienti tridimensionali di Ocarina of Time all'evocativa reinterpretazione degli open world del recente Breath of the Wild. Il mondo creato da Shigeru Miyamoto e Takashi Tezuka non è soltanto una delle pietre miliari di Nintendo, ma un caposaldo del nostro medium e un esempio di game design a tutto tondo. Link e Zelda sono mascotte care a chiunque ami esplorare regioni selvagge piene di pericoli, bellezza ed enigmi.

In 35 anni di storia, non tutte le generazioni di gamer hanno impersonato lo stesso Link. Qualcuno, per la prima volta, ha sfoderato la Master Sword in Super Smash Bros. Per i più giovani, magari, A Link Between Worlds è venuto prima di A Link to the Past, Phantom Hourglass prima di Wind Waker, e molti hanno giocato Final Fantasy XIII Lightning Returns prima di quel Zelda che ne ha ispirato le meccaniche, Majora's Mask.

Ecco come la redazione di Eurogamer ha vissuto il suo incontro con l'eroe verde di Hyrule, il guerriero che cavalca il vento, che attraversa il tempo e le dimensioni.

Marco Procida

Nel Natale del 1988 avevo sei anni e a casa mia arrivò un NES come regalo, con Super Mario Bros incluso; nel corso dei mesi papà mi comprò altri titoli. A quei tempi i giochi li sceglievi nei negozi di giocattoli o di elettronica, non in base a recensioni o alle pubblicità, bensì guardando la cover e le immagini sul retro. A me e mio fratello colpì subito un gioco chiamato The Legend of Zelda, che spiccava per la sua scatola dorata e la promessa di un'avventura mirabolante. Anche la cartuccia era dorata, e questo le dava un retrogusto di magia già prima d'inserirla nello slot della console.

Fu amore a prima vista. Mai visto un gioco così. Potevi esplorare un intero mondo e c'era un profondo senso di libertà. Potevi persino salvare i progressi perché c'era una batteria tampone dentro la cartuccia: roba dell'altro mondo. Seppur nella sua semplicità, offriva un ecosistema di paesaggi e nemici molto vario. Ci voleva la mappa (!), che per fortuna era inclusa, sennò era matematico perdersi, e di conseguenza morire tra i mille pericoli. The Legend of Zelda era un videogioco difficile, dannatamente difficile, ma mai frustrante. Ti incentivava a superare i tuoi limiti e le tue paure. Nel mio caso, però, volevo mio fratello più grande accanto quando andavo nei nuovi dungeon e sul Monte della Morte. Non finii mai la Second Quest con mezzi legali. Solo a distanza di dieci anni con internet e le guide, scoprendo quanto fosse arduo.

Poi arrivò The Legend of Zelda II: The Adventures of Link, criticato da molti per il suo cambio di approccio, ma amai anche quello. Precursore dei tempi con la sua forte componente ruolistica e con duelli di spada senza precedenti, per non parlare delle musiche. Anche lui difficile come pochi, ma stupendo. Ogni tanto lo ricomincio pur conoscendolo a memoria, perché mi manca.

Nel tempo saltai qualche episodio, perché comprai il Mega Drive ma non il SNES. Ma il mio amore viscerale per la saga mi ha costretto a recuperare tutti i titoli di Zelda usciti nel tempo. Tra i tanti episodi la saga è cambiata molto, ma è anche rimasta per certi versi uguale. Forse si è addolcita nella difficoltà, ma la magia che trasmette è rimasta identica e unica. Non c'è nulla di paragonabile per me nell'intero settore videoludico. Per questo amo e amerò sempre Zelda.

Daniele Cucchiarelli

Correva l'anno 1993. All'epoca ero un giovane virgulto che già da anni frequentava sale giochi e case degli amici per giocare tutti i videogiochi possibili. Dopo essermi fatto le ossa (e non solo) sui cabinati di Popeye, Gyruss, Vendetta, Midnight Wonderers e Poker Ladies venni anche io risucchiato in quel gorgo portatile chiamato Game Boy, regalatomi dagli amici per il diciottesimo compleanno. Tetris, Super Mario Land e tutto quello che volete ma per me IL gioco Game Boy per eccellenza rimane lui: The Legend of Zelda Link's Awakening... che tra l'altro è ancora oggi il mio Zeldino preferito.

Ho sempre amato alla follia l'atmosfera particolare di questo spin-off della serie, che per la prima (e ancora unica) volta abbandonava le solite storie e soprattutto il consueto binomio Principezza Zelda + Mondo Minacciato da XYZ. Per la prima volta Link era da solo, naufrago sulla sconosciuta Koholith Island i cui segreti potevano essere rivelati solo risvegliando il Pesce Vento con otto strumenti incantati. Il tutto avveniva con un gufo parlante costantemente sulle nostre tracce, una strega a cui piacevano i funghetti allucinogeni e un cast di NPC assolutamente indimenticabili. Se dovessi paragonare Link's Awakening ad un film non avrei dubbi: Il Mago di Oz.

Ho perso il conto di quante volte l'ho portato a termine. La prima volta pochi giorni dopo la sua uscita e non senza qualche difficoltà. perché nella sua prima versione il gioco aveva un errore di traduzione che rendeva la risoluzione di un enigma particolarmente difficile. All'epoca poi non esisteva Internet e non avevamo WhatsApp. L'unica era sentirsi al telefono o vedersi di persona per scambiarsi consigli, il romanticismo applicato ai videogiochi. Divorai la versione DX uscita cinque anni dopo su GBC con i suoi colori e il dungeon aggiuntivo. Quando Nintendo annunciò il remake per Switch ero quasi incredulo. L'ho apprezzato? Sì, molto... ma per me il Link's Awakening originale rimane inarrivabile.

Lorenzo Mancosu

Immagina un bambino in una stanza vuota. Immagina che una parete di quella stanza s'illumini all'improvviso, aprendo uno squarcio su un mondo fiabesco e colorato. Immagina che quel bambino, solitamente costretto fra quattro mura, possa improvvisamente cavalcare in mezzo al verde, mentre un sole di fuoco cala lentamente verso l'orizzonte, mentre le acque di un lago stretto nell'abbraccio delle montagne cantano timidamente all'ombra degli alberi.

C'è una filosofia orientale legata al mondo della meditazione che suggerisce l'individuazione del proprio "posto sicuro", di un "luogo sacro" per il nostro Io. Hyrule, per il sottoscritto, è diventata una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio capace di preservare una sorta di "sospensione della serenità", un'atmosfera immune allo scorrere degli anni e del tutto incontaminata dai problemi del quotidiano. Non ha importanza se hai avuto una giornata difficile a scuola, se un esame è andato male, se sei indietro con le rate della macchina, se sei appena uscito da una rottura amorosa: quella dimensione è sempre lì, e la sua magia non fa discriminazioni.

E ieri eri in tuta, magari avevi appena fatto merenda, e ti perdevi per ore a vagare tra un castello e un villaggio, facendo tappa nei pressi di un ranch, godendoti al massimo quelle note di spensieratezza. E oggi invece sei in camicia, sfinito dopo una giornata di lavoro, nervoso dopo ore e ore di studio, ma la mente si svuota rapidamente quando ti trovi di fronte a nuovi panorami mozzafiato, mentre il vento spazza via il fogliame, mentre quel mondo ritrovato porta raggi di luce anche nelle serate più grigie.

Personalmente, non credo sia un caso se la saga di The Legend of Zelda ha sempre scelto di giocare con il concetto del tempo. Perché l'universo di Hyrule è capace di portarti indietro con assoluta leggerezza, come se l'atto di suonare una melodia fosse sufficiente a cancellare le cicatrici inferte dallo scorrere degli anni. A un bambino bastano un bastoncino di legno e un parco in mezzo ai palazzi di una città per raccontare un viaggio straordinario. La saga di Zelda, dal canto suo, è un ponte sul fiume del tempo capace di risvegliare quell'indole sopita.

Antonino Fiore

Ho amato Minish Cap e The Wind Waker in maniera sconsiderata, e ancora oggi non so sviscerare fino in fondo le ragioni di questa vera e propria passione. Sarà stata la sensazione di poter navigare l'oceano, anni prima che fosse una conquista degli open world? Oppure la capacità di poter vedere il mondo in miniatura, scoprendo gli anfratti fatati di una realtà già, di per sé, fantastica? Certo la bellezza della pixel art e del cel shading hanno influito, il gameplay è tra i più collaudati e classici. Ma tutto qui?

Ho provato a darmi una spiegazione, e col tempo ho notato qualcosa di strano, un paradosso incredibilmente specifico che accomuna la mia esperienza con entrambi i giochi. Arrivato al boss finale, dopo uno o due tentativi senza troppa convinzione, ho mollato. Ho completato Minish Cap dieci anni dopo. The Wind Waker cinque. Lo stesso pattern, più avanti, s'è ripetuto con Spirit Tracks e Skyward Sword. Scherzando, ho chiamato questo fenomeno come una malattia, zeldite.

Si ha un caso di zeldite quando, all'incontro con il boss finale, il giocatore lascia in sospeso la sua avventura. Con Spirit Tracks ho dato la colpa all'ultimo dungeon, un luogo da visitare fino allo sfinimento, sbloccando alcune scorciatoie poco per volta. Ma il dungeon l'avevo superato, era il boss che non avevo mai tentato seriamente. Questo morbo incurabile, quest'istinto irrefrenabile di non finire il gioco, come cantavano gli Sugarfree in quegli anni, non aveva senso. Finché ho giocato Breath of the Wild (la mia cura), e finalmente ho capito.

Non finivo per sazietà. Alla fine di Breath of the Wild non avevo nessuna voglia di salvare Hyrule e sconfiggere Ganon, ma ero soddisfatto. Guardavo il castello da lontano. La differenza tra BotW e i predecessori sta nella continuità del mondo: Hyrule è un reame digitale che non si esaurisce. Per viverlo, con tutte le sue sorprese, non serve nessun meccanismo del subconscio per farti ricominciare lo stesso gioco dieci anni dopo, con la scusa di avere un conto in sospeso con un boss. Ho capito che la saga di Zelda riesce a concretizzare il senso di avventura, così tanto da rendere superflui i motivi che spingono l'avventuriero a intraprendere il suo viaggio. Zelda crea viandanti videoludici, ed è fortunato chi ci è cresciuto insieme.

Nicholas Mercurio

Zelda: Breath of the Wild è stato il primo Zelda su cui ho messo le mani. Durante il lockdown, è stato un viaggio incredibile che mi ha portato a visitare una terra memorabile e rigogliosa, minacciata da Ganon, un temibile nemico che ricorda i peggiori cattivi della letteratura mondiale.

L'anniversario di Zelda cade proprio a fagiolo con l'acquisto del mio Nintendo Switch Lite, che arrivò a casa mia un anno fa, proprio con Zelda: Breath of the Wild. Mentre scoprivo una nuova area di gioco, mi interfacciavo con me stesso, andando oltre il solo videogioco e sfrecciando felice in quelle verdi praterie in groppa a Fosco, il mio meraviglioso cavallo che mi ha portato in lungo e in largo, spesso in luoghi pericolosi.

Credo sia il miglior modo per approcciarsi alla serie, nonostante serva anche comprendere gli altri se si è davvero appassionati alla storia di Link e della principessa Zelda, che un po' mi ha ricordato l'amore che lega Aragorn ad Arwen ne Il Signore degli Anelli.

Nonostante la fama di Link arrivi da tempi più lontani, il mio primo contatto con Hyrule è stato piacevole e appagante, nonché sorprendente e intenso. Un videogioco che si deve recuperare per forza, solo per godere appieno dell'atmosfera che circonda uno dei personaggi più importanti dell'intero panorama videoludico. Dall'inizio alla fine non ne potrete più fare a meno.

Riccardo Cantù

Il brand di The Legend of Zelda è tra quelli che più mi hanno appassionato nel corso della mia vita. Ho ancora ricordi vividi delle immense distese verdi di Hyrule in Ocarina of Time e del vibrante mare azzurro di The Wind Waker, giochi che ho letteralmente consumato su Nintendo 64 e Game Cube. E allora perché, nonostante tutti questi trascorsi, quando mi parlano di Zelda penso istintivamente a Breath of the Wild? Perché l'ultimo capitolo della serie è stato la mia unica finestra su un mondo esterno in un periodo di isolamento forzato. E no, non sto parlando del lockdown imposto dall'emergenza Covid, bensì di un momento antecedente, a pochi giorni dal lancio di Nintendo Switch.

Avevo acquistato l'ibrida della Grande N al lancio nel mio negozio di fiducia insieme ad una copia fiammante di Breath of the Wild che in quei giorni veniva osannato dalla stampa specializzata come uno dei capitoli più belli della saga nonché di uno dei migliori videogiochi di sempre. La routine della vita lavorativa, però, non mi consentiva di dedicare al gioco tutto il tempo che avrei voluto perciò aspettavo un momento più tranquillo per godermi il nuovo capolavoro di Nintendo con il giusto ritmo.

Il caso ha voluto che a breve distanza dal dayone di Switch mi sia beccato una forma aggressiva di congiuntivite infettiva, condizione che mi ha impedito di uscire di casa e avere contatti con altre persone per oltre due settimane. Quale momento migliore per immergermi nell'abbraccio della natura selvaggia di Breath of the Wild? La ricordo ancora come una delle esperienze videoludiche più intense della mia 'carriera': il momento in cui Link riemerge dal sacrario in cui ha riposato per diversi secoli e viene investito dalla bellezza della sconfinata Hyrule è uno di quegli attimi che rimangono impressi a fuoco nella mente per non andare più via.

Qualcuno potrebbe pensare che dopo quasi 20 anni di videogiochi sia difficile rimanere a bocca aperta davanti all'ennesimo episodio di Zelda ma credetemi quando vi dico che, fin dalle prime battute, ho capito il motivo di tutte quelle lodi che avevo letto online nei giorni precedenti. Ho fatto conoscenza con i quattro Campioni, ho affrontato i pericoli che si celavano all'interno Colossi Sacri e ho esplorato le città che componevano quel meraviglioso affresco con una curiosità che non provavo da tanto tempo.

In fondo, se c'è un merito che va assolutamente riconosciuto a Nintendo e alle sue opere è proprio questo. Nonostante siano passati ben 35 anni dalla prima incarnazione di The Legend of Zelda, le storie di Link e della Principessa continuano a parlarci direttamente al cuore, anche nei momenti difficili. "Anche se hai perso la memoria, non sei cambiato per niente! Parti alla carica, armato soltanto del tuo senso della giustizia. La tua dedizione è rimasta immutata".

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Antonino Fiore

Contributor

Classe 1993, in squadra dal 2018. Ha scoperto i videogiochi con i floppy dell’Amiga e da allora vive, sbalzato temporalmente, una generazione indietro. Dalle avventure grafiche agli horror, è un accanito retrogamer e un vorace escapista. Con gli anni ha realizzato d’essere, più che altro, un semplice Homo Ludens. Megaman e Suikoden sono i suoi punti deboli.

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