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Il valore del tempo inutile - editoriale

Dedicato alle centinaia di ore trascorse a pescare nei videogiochi.

C'era una volta un prode guerriero, un prescelto dal destino che rappresentava l'unica speranza per l'umanità, l'unica figura in grado di sconfiggere il male e salvare il mondo conosciuto. Eppure quel guerriero, nel corso dei suoi viaggi, fu avvistato spesso mentre anziché assolvere la sua missione era impegnato a pescare carpe sulle rive di un lago, addirittura a costruirsi una casa con martello, chiodi e travi, e c'è chi ha giurato di vederlo perdere ore a giocare a carte nelle peggiori taverne della regione. Possibile che una figura del suo calibro sprecasse così tanto tempo in attività completamente inutili?

Parlando del valore del tempo inutile in rapporto al medium videoludico ci si trova al cospetto di un concetto capace di svilupparsi in maniere decisamente complicate dentro e fuori dalle dimensioni fatte di pixel. Ci sono persone, come il senatore Cangini di Forza Italia, che reputano il consumo di videogiochi una pratica non solo inutile, ma addirittura dannosa per i giovani, capace di dar vita a forme di dipendenza paragonabili a quelle legate all'abuso di cocaina.

Link's Awakening è stato il primo RPG a introdurre un minigioco dedicato alla pesca.

È evidente che, a prescindere dal discorso sulle dipendenze, definire inutile il tempo trascorso in compagnia dei videogiochi equivale a definire inutile ogni minuto dedicato a qualunque forma di divertissment, sia esso la lettura di un libro o di un fumetto, la visione di un film o di una serie tv, così come qualsiasi hobby intellettuale incapace di restituire un tornaconto materiale e misurabile.

Ma a noi non interessa perderci in quella che è una disquisizione filosofica tra dinosauri, ovvero se il tempo dedicato ai videogiochi sia o meno inutile: quello di cui vogliamo parlare oggi è il tempo “inutile” che effettivamente spendiamo all'interno dei mondi dei videogiochi. Tutto il tempo che i videogiocatori appassionati trascorrono nel cuore degli universi digitali senza che vi sia alcun genere di tornaconto o ricompensa, seguendo l'input proveniente da alcuni sviluppatori illuminati che gli hanno concesso, per mezzo delle meccaniche di gioco, di lasciar correre le lancette dell'orologio in barba alle esigenze narrative.

Ecco che cos'è il tempo inutile nei videogiochi: quello che si trascorre andando a pesca, osservando i panorami, mettendo da parte il classico compito di “salvare il mondo” per dedicarsi invece a una partita a carte, così come quello che si spende per approfondire il background narrativo di un personaggio che esiste solamente all'interno delle menti dei videogiocatori.

Con la Anniversary Edition anche Skyrim ha accolto lenza e amo.

Ed è una frazione di tempo che sta assumendo un'importanza fuori dal comune nell'opera videoludica, tratteggiando i confini dei pochi mondi virtuali nei quali il giocatore può dire di sentirsi veramente a casa, e costruendo dall'altra parte dello schermo, oltre alle fasi ad alto tasso di adrenalina, anche sezioni fatte di puro relax e di caratterizzazione emergente.

Una delle principali espressioni di questa deriva è incarnata da una meccanica che recentemente sta spopolando nei videogiochi, ovvero la pesca. The Legend of Zelda: Link's Awakening per GameBoy fu il primo titolo ad introdurre un minigioco legato alla pesca, e da quel momento in avanti armarsi di lenza e amo divenne uno standard dell'intero tessuto RPG. Da Okami fino a Final Fantasy, da Suikoden fino a World of Warcraft, quella di trascorrere tempo a pescare è diventata una vera e propria tradizione.

Persino Skyrim, attraverso la recente Anniversary Edition, ha introdotto nella regione nord di Tamriel l'unica cosa che mancava al fine di renderlo un videogioco di ruolo completo: la pesca a fini puramente decorativi. C'è qualcosa nella presenza della pesca che fa particolare gola ai “simulazionisti” di tutto il mondo, una sorta di magia che esercita una straordinaria attrattiva sugli appassionati, tanto che in Final Fantasy XIV esistono centinaia di giocatori che dedicano migliaia di ore al completamento dell'immenso “Fishing Log”.

Geralt di Rivia deve salvare Ciri. Ma prima una partitina a Gwent non gliela toglie nessuno.

Prima di armare il Sangue di Drago di canna da pesca, Skyrim aveva già imboccato questa direzione con l'espansione Hearthfire, che consentiva ai giocatori di investire il proprio tempo nell'acquisto di un appezzamento di terra e nella conseguente operazione di costruzione di una casa, con il potenziale di trasformarsi nel “nido” prescelto dalla famiglia del grande eroe. Il risultato era che dozzine di giocatori, anziché fermare i piani del drago eterno Alduin, imbracciavano martello e chiodi per costruirsi un angolo di paradiso in mezzo alle rovine nord.

In fin dei conti ci sono titoli interi, come la serie di Animal Crossing, che su questi elementi hanno costruito tutto il gameplay, consentendo agli appassionati di dedicarsi a versioni frizzanti e semplificate di lavori e passatempi più che mai “reali”. Ma perché questo genere di possibilità ha conseguenze così pesanti sulla percezione del videogioco agli occhi dei giocatori?

La presenza di attività estranee al filone principale ha diversi effetti sul meccanismo di avvicinamento all'opera: servono per caratterizzare il mondo di gioco rendendolo “vivo”, per introdurre obiettivi estemporanei nelle formule di gameplay, ma soprattutto per favorire l'immersività, l'immedesimazione e le meccaniche di role-play emergente, che spingono gli appassionati a “giocare” fuori dalle regole del gioco stesso.

Se in The Witcher 3 la presenza del gioco di carte Gwent e delle sue quest-line contribuiscono a creare uno strato narrativo e di gameplay completamente nuovo, l'atto di portare a pesca Arthur Morgan in Red Dead Redemption 2 non ha alcun impatto concreto sull'esperienza se non quello che è lo stesso giocatore ad attribuirgli, immedesimandosi nel personaggio al punto da voler conferire alla sua quotidianità una connotazione che sia la più realistica possibile.

Ci sono titoli come Animal Crossing che sono interamente fondati su queste meccaniche.

È lo stesso procedimento che porta i giocatori, nei titoli di FromSoftware, a camminare lentamente verso il prossimo avversario invincibile, manovrando la telecamera come registi improvvisati e ripensando al percorso che ha condotto fino a quella battaglia, secondo quella che è la pura e semplice voglia di integrare elementi da role-play nei confini di opere che non supportano direttamente il role-play.

Non facciamo nomi, ma sappiate che nella nostra redazione c'è una persona che su Skyrim, dopo aver ucciso il bersaglio di un assassinio, depositava manualmente un fiore su ogni singolo corpo senza vita, per lasciare la sua personale firma e rimanere fedele al background narrativo che si era scritto al di fuori del mondo virtuale.

A un primo sguardo la massima espressione di queste dinamiche sarebbe da ricercare nei videogiochi sandbox, in quelle opere che lasciano libertà totale al giocatore senza nemmeno imbrigliarlo sui binari della narrativa, per trasferire nelle sue mani tutto il potere legato alla creazione della storia. Un esempio virtuoso è quello di Elite: Dangerous, simulatore spaziale che mette a disposizione dei giocatori dozzine di attività, di carriere, di opportunità per influenzare la politica della Galassia, senza mai tenerlo per mano né indirizzarlo verso un sentiero preferenziale.

Nella “bubble” di Elite: Dangerous è possibile diventare cacciatori di taglie, cercatori di diamanti, trafficanti d'armi, combattenti in cerca di guerre civili da sostenere, esploratori delle sezioni più remote della galassia, esponenti delle più note organizzazioni interplanetarie o ancora criminali ricercati dalle maggiori giurisdizioni. Ma l'assenza di un obiettivo scolpito nella pietra e di un binario imposto dagli sviluppatori portano diversi potenziali giocatori ad abbandonare rapidamente queste sponde.

Quanto però escono titoli che vengono ricamati solo su queste meccaniche, come Sea of Thieves, vengono criticati.

A ben vedere quando un videogioco “osa” presentarsi sul mercato senza una formula narrativa impattante, e soprattutto senza fornire indicazioni solide al giocatore, finisce per stufare abbastanza in fretta, cosa che è accaduta ad esempio al primo Sea of Thieves, che ebbe la “presunzione” di spostare in capo al giocatore la responsabilità di creare un background e una storia interessante dietro le scorribande piratesche.

Il mondo dei videogiochi, ma soprattutto il tessuto dei videogiocatori, non sembra ancora pronto per abbracciare le formule puramente sandbox, ma al contempo chiama a gran voce la cosiddetta libertà di scelta nelle trame intrecciate dagli RPG, ed è estremamente sedotto dall'apporto fornito dal “tempo inutile” all'architettura delle grandi avventure.

Il richiamo della canna da pesca, della partita a carte, della scalata di una montagna, della camminata al rallenty, e anche quello delle photo-mode, è un meccanismo che consente al videogioco di oltrepassare quelli che sono i limiti della programmazione per stringere un rapporto più profondo con l'utente, che sceglie consapevolmente di riservare parte del proprio tempo a elementi che, nella maggior parte dei casi, non premiano l'investimento con ricompense tangibili.

E così, di RPG in open-world, di MMO in avventura d'azione, siamo portati a subire il fascino della leggerezza del mondo virtuale, rilassandoci sulle sponde di un lago o dedicandoci alla cucina, costruendoci un rifugio o godendo di qualche partita a carte. Elementi che, d'altra parte, funzionano solo quando vengono inseriti sullo sfondo di un quadro più ampio, quando finito il piacevole intermezzo bisogna tornare a rimboccarsi le maniche. Il che, se ci pensate, è straordinariamente vicino a ciò che accade nella vita di tutti i giorni.