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Serial Cleaners recensione, si può cambiare stile senza aggiornare le meccaniche?

Siamo il Signor Wolf e compagni, risolviamo problemi.

Le protagoniste e i protagonisti dei videogiochi solitamente si riconoscono abbastanza facilmente, perché tendono a lasciare dietro di sé una sterminata scia di sangue… o in altri casi di esseri spiaccicati. Forse una parte di noi inizia a soffrire questo topos, e quale modo migliore di togliersi il senso di nausea se non vestire i panni di quelli che vengono dopo le stragi dei protagonisti?! Le persone delle pulizie che arrivano per sistemare i disastri lasciati dagli eroi-antieroi che tutti amano. Non è quindi strano pensare che un gioco come Viscera Cleanup Detail abbia avuto un successo incredibile.

Ed era solo questione di tempo prima che a qualcuno venisse l’idea di farci vestire i panni del Mr. Wolf di Pulp Fiction, quello che non solo fa le pulizie, ma risolve letteralmente i problemi dei pischelli dal grilletto un po’ troppo facile. Sono passati già cinque anni da quando lo sviluppatore Draw Distance pubblicò il gioco Serial Cleaner (al singolare), in cui vestivamo i panni di Mr. Bob: un “addetto alle pulizie” dei casini combinati dalla mafia americana negli anni ‘70.

In Serial Cleaners (al plurale), che siamo qui oggi a recensire, sono passati una trentina d’anni e Mr. Bob è tornato in azione accompagnato da due colleghe ed un collega. Siamo a New York, nella notte di Capodanno del 2000 e i quattro compagni d’avventure si sono riuniti in un’agenzia funebre ricordando i lavori più memorabili del decennio che si sta per concludere. È proprio durante questi flashback che tocca a noi prendere il controller in mano (sconsigliamo mouse e tastiera su PC) per controllare i quattro personaggi.

Non tutti i flashback sono ambientati negli anni '90 e alcuni, come questo con protagonista Bob, sono particolarmente sopra le righe.

Bob, che già conosciamo, è ormai diventato il tipico burbero brizzolato tarantiniano con tanta esperienza sulle spalle, alcool sul fegato e quindi desideroso di elargire tanti saggi quanto immorali consigli di vita. Viper, o meglio V1p3r, uscita direttamente da Matrix è la tipica giovane hacker anni ‘90 piena di sé, pronta a spaccare il mondo a colpi di attacchi DDoS e sventolando la frangia del suo caschetto nero.

Lati è invece un’afroamericana del Queens, con una capigliatura decisamente più dinamica, la poesia nel sangue e il sogno di diventare un’artista contemporanea, reso arduo dal pantano criminale del suo quartiere. Infine c’è Hal, anche detto Psycho; nomen omen, visto che ci troviamo di fronte ad uno psicopatico fatto e finito, con le capacità comunicative di un infante e una motosega sempre pronta sotto il lungo impermeabile nero.

A differenza del primo capitolo, Serial Cleaners punta molto di più sulla componente narrativa e nel corso del gioco esploreremo a fondo le storie che hanno portato i quattro protagonisti a lavorare assieme, grattando nel marciume delle loro vite come solo gli oscuri noir newyorkesi sanno fare. Per assurdo, però, questa sterzata sulla narrativa fa risaltare tutte le debolezze che il gioco, pad alla mano, purtroppo possiede e che analizzeremo a breve.

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E questo non è il solo miglioramento che paradossalmente punta i riflettori sul re nudo, ma anche il passaggio da 2D a 3D che sicuramente avrete notato nel trailer. Permettetemi qui di aprire una parentesi, riguardo una riflessione che questo gioco mi ha portato ad elaborare: le aspettative su un gioco sono strettamente legate al design grafico scelto dagli sviluppatori. Non tanto perché stile e budget spesso vanno di pari passo, ma proprio perché la copertina già dovrebbe comunicare qualcosa del libro che andremo a leggere.

Da un gioco 2D frenetico e dallo stile stilizzato ispirato agli anni ‘70, com’era Serial Cleaner, ci aspettiamo un gameplay minimale e quasi arcade. Con poche meccaniche, livello di sfida elevato e un level design che tenga il passo della nostra masochistica voglia di fallire e ricominciare. Se ad un gioco del genere aggiungessi anche una buona narrativa, avresti la ricetta perfetta per il capolavoro indie. Questo secondo capitolo ci catapulta invece negli anni ‘90 da tutti i punti di vista, anche per quanto riguarda il design: pochi poligoni, poche animazioni e texture spoglie e impastate. Insomma, un nostalgico salto indietro nel tempo che è una meraviglia per gli occhi e per il cuore.

Peccato che a questo cambio di stile grafico non sia corrisposto un salto in avanti anche a livello di gameplay anzi, per certi aspetti, quasi un salto indietro se consideriamo la perdita di sfide arcade. Certo, ogni personaggio ha le proprie abilità uniche, ma alla fine i ristretti livelli sono pensati per quel singolo personaggio (o al massimo un paio da alternare) con un design sostanzialmente lineare che non lascia libere le meningi del giocatore di lavorare, elaborando piani o trovando strategie alternative. Non solo quindi le possibilità d’interazione con l’ambiente, oltre a spostare cadaveri e raccogliere il sangue, sono minime, ma la loro utilità è anche evidente fin dal primo istante.

Anche i livelli apparentemente più complessi sono troppo piccoli e semplici per rappresentare una reale sfida mentale.

Chi ama i giochi stealth, come me, sa bene quanto l’esplorazione ambientale sia importante, con la scoperta continua di nuove situazioni da sfruttare a proprio vantaggio. Se invece è tutto fin da subito evidente, ciò che resta è solo aspettare che i poliziotti eseguano la propria ronda per lasciarci libero il passaggio. Questo è alla fine tutto il livello di sfida che offre il gioco: aspettare che gli agenti passino. E, come già accennato, se questa semplice meccanica poteva calzare a pennello in un gioco 2D dal ritmo sostenuto e dal tono spiccatamente arcade, risulta del tutto fuori luogo in un gioco che almeno apparentemente vorrebbe godere di un respiro più ampio.

Visto che stavamo parlando dei poliziotti, il cui scopo è proteggere le prove dei delitti dalle nostre grinfie pulitrici, avrei voluto criticare la stupidità dell’intelligenza artificiale, ma considerando che si tratta di un problema costante anche in produzioni ad alto budget, non mi sembra il caso d’infierire ulteriormente. Peccato solo che in un gioco stealth questo aspetto produca dissonanze ludo-narrative non da poco, come poliziotti che si ritrovano un cadavere impacchettato, pulito e spostato e dopo due secondi se ne dimenticano. O ti vedono con un cadavere in spalla e non vengono a controllare, magari solo perché devono fare le scale, neanche avessimo a che fare con il Commissario Winchester.

Da sceneggiatori di una sitcom, gli sviluppatori hanno voluto elevarsi a scrittori di una tragedia d’autore, rischiando di volare troppo vicino al Sole. Ma come ha detto Lati nel gioco, forse il problema è mio che come un bambino sono stato più attento al ritmo che al contenuto.

6 / 10