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In Nome del Cielo | la recensione

Quando il fondamentalismo diventa criminale...

In nome Dio, sotto la bandiera della fede, quante stragi sono state commesse nella storia?

E di quanti dei parliamo, perché non esiste un Dio solo e dello stesso ci possono essere tante varianti, ai cui dettami adeguarsi. La serie tv In nome del cielo, distribuita da Disney +, ha un titolo originale più pregnante, Under The Banner of Heaven, perché è sempre sotto un vessillo che sventola che si radunano i seguaci di qualunque idea.

È tratta dal libro omonimo, definito “true crime” perché racconta un reale fatto di cronaca nera, genere che riscuote molto gradimento in forma scritta o trasposto su schermi grandi o piccoli. L’autore è quel Jon Krakauer noto per aver scritto Nelle terre estreme e Aria sottile, divenuti i due film Into The Wilde ed Everest.

Andrew Garfield, il bravo poliziotto, padre di famiglia e uomo di chiesa.

I fedeli che si stringono sotto il vessillo di Dio e dei suoi profeti in questo caso sono i Mormoni, religione fondata dal 1830 in poi dal profeta Joseph Smith su “rivelazione” diretta da parte del Signore. Dopo la sua cruenta morte nel 1844 e molte separazioni da parte dei fedeli, oggi la branca più numerosa è quella della Chiesa dei Santi degli ultimi giorni (la LDS), che ha il suo fulcro nello stato dello Utah. Ma la storia del movimento religioso meriterebbe un approfondimento a parte.

I fedeli, infatti, hanno creato e si adeguano a diverse variazioni del loro credo, determinate da quale è il Profeta che seguono, perché diversi profeti impongono diverse regole, alcune oggi abbandonate (anche perché dichiarate fuorilegge) come la poligamia. Ma sta alla congregazione decidere a quali aderire.

A Joseph Smith si rifanno oggi i fondamentalisti che predicano un ritorno alla poligamia e il rifiuto della Stato centrale. Della sua vicenda e di altre successive sapremo grazie a flashback che si intrecciano al caso di cronaca nera avvenuto ai giorni nostri, che è il soggetto principale. Siamo nel 1984 a East Rockwell, nei pressi di Salt Lake City, enclave storica dei Mormoni, e vengono assassinate crudelmente una giovane madre e la sua bambina di quindici mesi.

Come da tradizione il primo sospettato è il marito, Allen Lafferty, il più giovane fra i membri dell’influente famiglia, famosa e rispettata nella zona, con il patriarca e i suoi sei figli, tutti forniti di altrettante devote mogli e di numerosa prole.

Wyatt Russell in un ruolo inquietante.

A guidare le indagini è Jeb Pyre (Andrew Garfield), un giovane detective di stretta osservanza religiosa, sposato e con due adorabili figliolette, tutti assai ben inseriti nell’onnipresente chiesa locale. La loro comunità, mite e pacifica ma non per questo meno intransigente, si attiene ai dogmi di un altro profeta, Spencer Kimball, che accetta le leggi dello Stato e rigetta la poligamia. Ciò nonostante, nel corso delle indagini, Jeb sarà velatamente minacciato dai suoi vescovi perché il caso ha richiamato la sgradita attenzione dei media del resto del paese.

A fianco di Jeb agisce Bill Taba (il sempre valido Gil Birmigham, uno dei protagonisti di Yellowstone), un altro detective nativo americano, trasferito là da Las Vegas, forse senza fede ma equilibrato e saggio, capace di avvertire la follia che lo circonda, discriminato da parte di uomini che si considerano superiori a lui.

Mentre le indagini proseguono, con le cautele dovute anche al fatto di muoversi fra membri della stessa chiesa che tutti si conoscono ed esitano a scoprirsi, emerge una verità sconvolgente, perché il duplice omicidio è solo l’inizio di un piano ben più vasto e articolato. Appare subito chiaro che perno della storia è l’influente Famiglia Lafferty, in cui figli hanno preso derive diverse, insieme ad alcune delle mogli più sottomesse.

Negli interrogatori il “chiedilo a Dio non a me” si sostituisce al “mi rifiuto di rispondere” del V emendamento. Anche perché “se le leggi dell’uomo si oppongono a quelle del cielo, ci schiereremo under the banner of heaven”, come afferma uno dei leader, “per separare il grano dal loglio”, per ripulirlo e tornare alla purezza primigenia. Un episodio conclusivo lungo come un film (128 minuti) tesissimo e coinvolgente, chiude una serie davvero interessante e coinvolgente.

Una bella famiglia riunita...

In nome del cielo non è certo un prodotto leggero e non è solo un thriller, anche se fino alla fine non si saprà che davvero abbia compiuto i delitti. Conta il quadro agghiacciante di un mondo dove l’integralismo religioso sconfina e si fonde col suprematismo bianco, col rifiuto del governo centrale, un conflitto fra i prescelti e lo stato corrotto. Non c’è però una semplice denuncia dei danni del fanatismo, perché i personaggi sono ben scritti e la loro progressiva evoluzione è giustificata da un insieme di fattori interni ed esterni alla Famiglia.

Si prende l’arduo compito di creare e scrivere la serie Dustin Lance Black, noto sceneggiatore, produttore e regista americano, nonché attivista LGBT, già autore di Milk, Big Love, J.Edgar, When We Rise. Arduo perché è sempre impegnativo rivisitare fatti storici, come ad esempio una strage compiuta dai Mormoni travestiti da indiani su una carovana di innocenti nel 1857. Ci chiediamo quale rimbalzo potrebbe avere una narrazione così critica oggi, quali polemiche potrebbe innescare negli USA.

Ottimo il cast: oltre ai due poliziotti troviamo attori come Sam Worthington, Wyatt Russell, Rory Culkin, Bill Howle (alcuni dei figli), il cui padre è il sempre inquietante Christopher Heyerdahl. Una delle vittime è interpretata da Daisy Edgar-Jones, sempre più lanciata dopo Normal People. Sembra che ultimamente tanti attori trascurati dal grande schermo o relegati a ruoli poco incisivi, diano il loro meglio nelle serie tv.

Andrew Garfield è perfetto per il personaggio, rigido e inizialmente quasi sgradevole. Fa sorgere il dubbio se un rispettato e rispettoso membro di una forte congregazione religiosa possa svolgere con l’adeguata efficienza il mestiere di detective della squadra omicidi, convinto che la loro fede e l’adesione totale ai suoi principi li avrebbero messi al riparo dal Male. Sarà scosso da una crisi profonda davanti a tanta efferatezza, alla facilità della distorsione di principi per lui inamovibili, che si riveleranno solo miti e bugie.

Un Detective sul confine fra dovere e fede.

Ma, oltre che essere ben recitata, In Nome del Cielo è una serie con una sceneggiatura ben articolata, valida come thriller poliziesco, col valore aggiunto dell’essere una storia vera, in cui la componente fanatica ha rilevanza decisiva, per offrirci un interessante quadro di una parte della società americana (ma non dimentichiamo che i Mormoni sono circa 16 milioni sparsi nel mondo).

Quando il mite Jeb prega, in cerca di conforto, dice: “Padre celeste rendici strumenti nelle tue mani per aiutarti a sistemare ciò che rinveniamo guasto”. Parole di gravità terribile, messe in mano a chi si arroga il diritto di essere il depositario di quel giudizio. Il problema gravissimo è che non si parla più nemmeno di Dio ma degli uomini che si sono fatti suo “megafono” e, in base all’adesione a questo e a quello, ci si scanna fra “fratelli” senza accorgersi che il ritorno agli antichi valori si riduce a non pagare tasse e multe, e all’avere più mogli, in un misto letale di vecchie tradizioni violente, di rivalse su abusi storici e di ribellione a presunti soprusi attuali (i Mormoni sono spesso stati malvisti dalle comunità presso le quali si stabilivano, già dagli albori del movimento).

Sconforta l’impossibilità di penetrare nella mente di un qualunque fanatico, convinto di detenere lui e solo lui la Verità assoluta, il Verbo, qualunque esso sia da qualunque Dio o leader arrivi. Che non si chiederebbe l’abiura ma almeno la discussione. Ma è una vana speranza, perché qualunque idea distorta si propugni, convinti della propria natura di “unti del Signore”, mai si arretrerà e, se fermati, si diventerà martiri. E “in nome del cielo” verrà versato del sangue, come la cronaca non smette mai di ricordarci, perché chi si è allontanato, chi ha contraddetto, chi si è ribellato, va “rimosso”.

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L’integralismo religioso da qualunque parte arrivi fa solo danni, sempre indice di una pericolosa chiusura mentale. La certezza cieca e assoluta della propria ragione, la mancanza di dubbi che anche qualcosa di diverso possa essere giusto, porta al desiderio di distruzione di tutto ciò che è “diverso”. Perché vivere vuol dire evolvere, senza essere ingessati da inamovibili dogmi, mettere sempre tutto in discussione, soprattutto dubitare e cercare una propria via.

Chiedendoci sempre: se Dio parlasse a ciascuno di noi, capiremmo tutti la stessa cosa?