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Il futuro degli MMO in bilico tra microtransazioni e carenza di contenuti - editoriale

È cambiato il genere o siamo cambiati noi?

Notte fonda. Nel silenzio delle nostre case, un solo suono echeggia, quello di un modem 56k, irritante quasi quanto un gessetto sulla lavagna. Unico momento libero per poter aprire le porte a qualcosa di unico, il gioco in rete, senza dover combattere con il resto della famiglia per usare il telefono. Invitare gli amici a casa propria non era sempre possibile; scuola, lavoro, famiglia diventavano ostacoli che con il passare degli anni si trasformavano in muraglie insormontabili. I LAN party erano sempre una possibilità, ma richiedevano spesso una pianificazione assai anticipata e un'organizzazione logistica tipica delle imprese militari alla Desert Storm.

Poi, Ultima Online. Il gioco che cambiò forse per sempre le nostre relazioni interpersonali, aprendoci le porte di un mondo che allora era ancora assolutamente inesplorato, un mondo che timidamente cercava di connettere persone da ogni angolo del globo, rimanendo comodamente seduti sulle nostre sedie IKEA di finta pelle e mesh irritante.

Un gioco che definì in maniera storica il genere degli MMO, diventando il patriarca che in molti negli anni a seguire cercarono di imitare con pochi successi e tanti, tantissimi fallimentiMa cosa aveva di così speciale? Un'esperienza, che travalicava una grafica che ad occhio moderno sembra arcaica, un lag pressoché delirante e tanti, tantissimi bug. Ma per la prima volta potevamo giocare di ruolo e fare amicizie, spesso durature nel tempo, che andavano oltre le mura delle nostre case. Potevamo creare le nostre avventure, vivere un'esperienza collettiva di story building, in un mondo creato in maniera magistrale dagli otto precedenti titoli ambientati nel mondo di Britannia.

Ultima Online. Il sovrappopolamento delle varie aree di gioco metteva a dura prova i nostri PC e le connessioni al modem, ma era davvero qualcosa di epico!

Ma la cosa forse più importante di tutte, nessuno o quasi si lamentava della lentezza della progressione del nostro personaggio, del grind pressoché infinito; nessun ingame store che vendeva cosmetici o boost alla "qualità della vita".

Cosa è cambiato quindi? In che modo siamo passati da giochi con sottoscrizioni mensili con tonnellate di contenuti e ore di gioco, a titoli che vengono pubblicati monchi, con un paywall per sbloccare l'intero gioco e una tonnellata di acquisti per cose superflue, nel più fortunato dei casi, o game-breaking sfociando nel pay-to win?

Lo scandalo recente di New World, il titolo di Amazon in arrivo a fine estate sui nostri PC, ha puntato tutti i riflettori su una pratica che lentamente ma inesorabilmente si è insinuata in numerosi titoli sia nuovi che vecchi; pubblicare un gioco con funzionalità e opzioni deliberatamente disabilitate, in modo da vendere ai giocatori la soluzione. Non stiamo parlando qui di emotes, skin e oggetti cosmetici, ma vere e proprie features che deliberatamente rendono il gioco in questione quasi ingiocabile senza acquisti nel negozio in game.

Nel caso di New World, la presenza di uno store che prima ancora della pubblicazione del titolo, prometteva, in un linguaggio da PR molto ambiguo, la presenza di boost non solo per l'esperienza del giocatore ma anche per le varie skill di crafting, fondamentali per la progressione del nostro eroe. Questo leak in violazione di NDA ha generato un clamore devastante, portando lo studio a pubblicare una sorta di smentita aggiungendo che tali acquisti non sarebbero stati possibili al lancio. Una spiegazione questa ancor più senza senso.

Dark Age of Camelot fu il primo vero MMO in 3D, aprendo le porte di un mondo in cui passare ore ed ore.

Offrire un boost, per saltare il contenuto del gioco e arrivare quasi immediatamente all'end game ci porta a pensare che l'esperienza di gioco offerta sia un qualcosa che non vale la pena di giocare. Questa opzione, pubblicizzata come modo per chi ha poche ore a settimana di giocare di restare al passo con gli amici e comunque godersi il titolo, ci fa capire quanto il target per questi giochi sia cambiato, o forse al contrario ci porta a pensare quanto i dev di questo gioco abbiano sbagliato approccio nelle loro ricerche di mercato.

Nel primo caso, forse il più terribile, gli appassionati di MMO si sono mutati in una specie geneticamente attratta da una gratificazione istantanea, dove tutto ciò che ci aspetta alla fine del viaggio deve essere accelerato e ottenuto quanto prima; non più ore di grind per aumentare le nostre abilità, ma un biglietto d'oro alla Willy Wonka, che ci permette di vedere la fine, salvo poi, inesorabilmente, lamentarsi per la mancanza di contenuti, protestando come keyboard warrior della domenica contro i dev che hanno creato un gioco noioso e privo di incentivi.

Uno scenario questo visto e vissuto in moltissimi titoli, fra cui il sopracitato New World, Black Desert Online (che letteralmente garantisce un pay to win nello store) e il grande vecchio World Of Warcraft. Perché si, l'essere sulla cresta dell'onda per oltre 16 anni non garantisce l'immunità da questo virus letale che si espande a macchia d'olio a contaminare tutto.

La collector edition di Burning Crusade Classic. Un pacchetto dai costi esorbitanti che offre boost al livello 58, mount e pet per entrambe le versioni del gioco.

WoW cominciò lentamente, in sordina, aggiungendo cavalcature e animali da compagnia, nel proprio store, con design unico e non presente nel gioco, salvo poi aggiungere servizi, come cambio di nome, server, razza, fazione che se da un lato possono essere giustificati da costi fisici, dall'altro i prezzi proibitivi sono stati definiti come la causa principale del declino del titolo. E il recente scandalo dei boost a pagamento per la re-release di Burning Crusade Classic, ha gettato benzina su quello che ormai non è più un falò, ma un'intera foresta in fiamme.

Il problema però non è solamente monodirezionale; i boost possono essere visti come non etici, ma fino a quando ci saranno utenti che li acquistano, questo fenomeno non avrà mai fine. Via via i giochi diventeranno sempre più carenti di features, tutte ottenibili a parte, con il prezzo globale per ogni titolo a superare i 70/80 euro, e con la mancanza di alternative valide, saremo tutti in coda ad acquistare titoli con 12 season pass, e opzioni a pagamento anche per usare la chat in game.

Solamente i veterani potranno ricordare, quasi con gioia le ore spese dietro al proprio personaggio, o negli scontri Realm vs Realm di Dark Age Of Camelot, quando la bravura di un giocatore non era misurata dal numero di cosmetici acquistati.

New World. Riusciranno i giocatori a perdonare ad Amazon l'inserimento dello store prima ancora del lancio, o si può già parlare di flop al lancio?

Giochi come DAoC e Ultima Online, sono solo ricordi ormai. Bellissime memorie di un tempo in cui videogiocare voleva dire perdersi in un mondo, esserne assorbiti. Non avremo mai più titoli così, e questa forse è la più triste delle verità. Comprare un gioco finito sarà l'eccezione e non più la norma, e la mancanza di alternative, normalizzera questa pratica.

I giochi verranno creati attorno allo store, e a quanti servizi potranno essere venduti agli utenti; non più storie avvincenti, o design dei personaggi con storie profonde. Quello che ci rimane ora è un biglietto di sola andata verso il finale, con il riassunto di ciò che è successo, e un pacchetto regalo con le nostre nuove fiammeggianti gear, appena uscite dal fabbro, perfette in ogni punto, senza ammaccature o bozzi.

Armature e armi che non hanno mai visto la battaglia. Ridateci il grind. Ridateci i giochi veri.

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Alberto Naso

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Appassionato di videogiochi fin dall'infanzia, non sembra voler smettere da adulto. Streaming, articoli e la gestione di un negozio di giochi riempiono le sue giornate, col desiderio di giocare sempre un'altra partita. Potreste incontrarlo molto probabilmente nelle vaste terre di Azeroth.
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