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Perché giochiamo? - editoriale

O il “futuro dei videogiochi”. E degli NFT.

Perché giochiamo ai videogiochi? Perché guardiamo i film? Perché leggiamo libri? Sono centinaia, se non migliaia le risposte che si possono fornire a questo genere di domande, quesiti che sono intrinsecamente privi di soluzioni univoche, perché tendono ad adattarsi alla definizione che decidiamo di appioppare all'arte, o più semplicemente a un qualsiasi medium.

Si tratta di attività ricreative o formative? Si tratta di prodotti di mero consumo o di strumenti che portano alla riflessione? Si potrebbe dire che rappresentano un insieme di tutte queste cose, o meglio, che ciascuna opera che viene realizzata persegue uno scopo differente e viene destinata a un pubblico differente, cercando il contatto talvolta per toccare corde emozionali, spesso per portare nudo profitto, certe volte per raccontare una storia, altre per catturare orde di sprovveduti nella sua rete.

Ma, attenzione, molto dipende anche dalle persone che fruiscono di queste creazioni. C'è chi gioca a un videogioco semplicemente per ammazzare il tempo, c'è chi lo fa per uscirne arricchito, c'è chi impugna il pad alla ricerca della compagnia digitale, c'è chi usa le opere interattive per straniarsi dalla quotidianità, oggi c'è addirittura chi lo fa per guadagnarsi da vivere - producendo contenuti o gareggiando nelle competizioni degli esport, e sì, c'è anche chi gioca perché non può farne a meno, avendo sviluppato una vera e propria forma di dipendenza.

Perché videogiocare? Per anni lo abbiamo fatto per i motivi più disparati, e ogni giorno nascono nuove risposte alla domanda.

Certo è che la produzione di opere interattive ha conosciuto ondate di stravolgimenti della propria natura che hanno l'hanno portata a distanziarsi da quella filosofia che, un tempo, guidava la mano degli autori e l'ambizione dei publisher, generando effetti irreversibili sul drive che spinge utenza alla fruizione.

Se una volta si mirava al sostentamento dell'attività d'impresa attraverso il finanziamento dell'opera creativa, oggi si punta al margine di crescita tipico delle S.p.a. ignorando - e spesso calpestando - concetti vetusti come l'autorialità, sostituendo quella che potremmo definire la classica user-satisfaction con un approccio freddo e talvolta predatorio. Se vogliamo, l'investor-satisfaction.

L'emersione dei live game il cui unico scopo è accumulare e vendere le migliaia di ore spese dagli appassionati nei mondi digitali, la creazione dei DLC a pagamento e del tessuto di microtransazioni che sorreggono il mercato contemporaneo, e a breve l'ingresso sul palcoscenico dei Non Fungible Token, hanno segnato o segneranno presto la fine del periodo di transizione fra quella che è stata un'età dell'oro per l'opera creativa e quella che si prospetta come una potenziale epoca di soli consumi.

È qui che entra in scena il mutamento delle possibili risposte alla domanda "perché videogiocare" che trovate nel sottotitolo: un tempo giocavamo per divertirci, per vivere una storia, per trascorrere ore di spensieratezza, per competere come in un qualsiasi sport di squadra. Oggi si sta affiancando l'eventualità che lo si faccia per "Fear Of Missing Out", perché catturati in un rapporto di spesa-dipendenza come quello architettato dai Gacha Game orientali, per inseguire una validazione digitale come quella che sorregge alcuni MMORPG, oppure ancora per guadagnare soldi, come prospettato dai sostenitori dell'incursione degli NFT nel sottobosco degli strumenti di monetizzazione bilaterale.

Di recente Ubisoft ha lanciato Quartz, la sua piattaforma proprietaria dedicata a NFT chiamati Digits legati ai singoli videogiochi della casa.

Ed è quest'ultima ipotesi la più discussa all'alba del 2022, certamente perché recentemente avvallata da alcuni colossi del mercato come ad esempio Square-Enix, il cui presidente Yosuke Matsuda ha pubblicato un lettera di fine anno che rincara la dose sulle proiezioni relative a Metaversi e NFT; oppure da Ubisoft, che ha lanciato la piattaforma Quartz proprio all'inizio dello scorso dicembre, o ancora da Electronic Arts, dal momento che il presidente Andrew Wilson ha detto chiaramente che "NFT e blockchain sono il futuro dei videogiochi".

Non deve sorprendere l'improvviso interesse delle compagnie "fondatrici" del medium verso le possibilità offerte dagli NFT così come dai Metaversi. Caspita, loro di universi e asset digitali ne creano tutti i mesi da decenni, e ora sono costrette ad assistere in disparte mentre gli ultimi arrivati prospettano a orde di investitori carichi di soldi la nascita di una nuova terra promessa dell'esposizione e del marketing, corredandola con l'emissione di Token e NFT capaci di generare ricavi grazie alla loro stessa esistenza.

Ma quale sarà, domani, la risposta alla domanda "perché videogiocare?" Ci sarà chi accenderà il PC o la console trascorrendo centinaia e centinaia di ore - magari svolgendo attività intellettualmente non remunerative - nell'inseguimento di un compenso erogato in forma di Token? Ci sarà chi sostituirà l'attività sociale e quella lavorativa con una nuova forma di farming volto alla produzione di oggetti virtuali che, pur portando all'arricchimento della casa madre, non garantiscono lo stesso risultato al giocatore? Senza contare che, al lato opposto dello spettro, emergerebbe una categoria completamente nuova di consumatori, volenterosi di investire in questo genere di oggetti.

L'armatura per il cavallo di Oblivion è stata una delle prime microtransazioni a farsi largo nel settore dei videogiochi (a un prezzo di $2.50).

Ovviamente, una simile ipotesi rappresenta solamente un estremo nello spettro delle possibilità. Un tempo avremmo potuto improvvisarci novelli Nostradamus e sostenere che l'immissione di DLC e microtransazioni fra i sistemi di monetizzazione dell'opera videoludica avrebbero portato danni irreversibili, come la prassi di tagliare contenuti per venderli separatamente, l'over-pricing dei primi oggetti digitali come la celebre "armatura per cavalli di Oblivion", o l'esclusione di chi non acquista un'espansione dalle meccaniche sociali di un'esperienza condivisa.

Anche se tutte queste eventualità si sono ironicamente concretizzate, è successo che numerosi altri publisher abbiano lanciato tramite questi strumenti contenuti che valgono fino in fondo il prezzo del biglietto e che si configurano come genuine appendici all'opera amata, talvolta ridando lustro a elementi tagliati per motivi più che ragionevoli e in certi casi migliorando oltre misura l'esperienza del consumatore.

È il caso ad esempio dei celebri DLC di CD Projekt RED, delle espansioni di Skyrim o del cut-content restaurato nei confini di Dark Souls. Insomma, non tutto è bianco o nero ed è solamente di un metodo d'integrazione errato di modelli come gli NFT di cui - da semplici consumatori - ci dovremmo preoccupare.

Pertanto, siamo costretti a prendere in considerazione anche l'estremo opposto: è possibile, ad esempio, che un giorno artisti digitali possano creare opere nel contesto videoludico e attrarre mecenati in grado di finanziarne le fatiche. Il che non rappresenta un'assurda distorsione della realtà, dal momento che è già successo che vere e proprie mostre venissero ospitate da alcuni fra i musei più importanti del pianeta nel contesto di mondi come quello messo in scena da Minecraft, senza contare che la creazione di contenuti contemporanea si bassa spesso, ma non esclusivamente, su rapporti di questo genere.

Certo è che gli NFT si portano appresso anche dei problemi apparentemente irrisolvibili, su tutti quello di natura ambientale, dal momento che sovente si appoggiano a blockchain "proof of work" - ovvero una convalida dei blocchi che richiede l'apporto di numerose GPU in serie - che consumano quantità incalcolabili di energia elettrica. E dov'è che costa meno l'energia elettrica?

New World utilizza i time saver: si tratta di microtransazioni pensate per rimuovere perdite di tempo che, d'altra parte, gli stessi sviluppatori hanno inserito nel titolo.

Ovviamente in quei pochi paesi che optano per la produzione a carbone. Una caratteristica, questa, che è difficilmente difendibile, sebbene esista anche un modello meno impattante (e meno diffuso, almeno fino alla fine della transizione che sta caratterizzando Ethereum) definito "proof of stake".

La questione successiva, che in fin dei conti incarna il nocciolo della questione e che Massimiliano Di Marco ha già ampiamente analizzato sulle pagine di Eurogamer.it, è quella della mancanza di qualsivoglia utilità pratica degli NFT nel moderno tessuto dei videogiochi, questione che d'altro canto ci porta ad un'ulteriore analisi del concetto di necessità applicato al settore. Durante tutte le fasi di transizione dei sistemi di monetizzazione nell'opera videoludica, infatti, la prassi comune è stata quella di creare una nuova necessità artificiale piuttosto che rispondere a una preesistente, prassi che nel caso degli NFT risulta particolarmente spaventosa.

Un tempo non c'era alcuna necessità di rilasciare contenuti DLC, di conseguenza numerosi publisher hanno deciso di tagliare contenuti dall'esperienza base per poi venderli separatamente. In diversi videogiochi multigiocatore non era necessario investire nelle microtransazioni per mantenere uno status di competitività, allora sono state create modalità intere a supporto di questo modello.

Nei videogiochi online non c'è mai stato il desiderio di saltare a piè pari contenuti impattanti, pertanto il game design ha premiato la tediosità al fine di regalare una ragion d'essere ai cosiddetti "time-saver", oggetti che permettono ai giocatori di risparmiare il tempo speso fra attività volutamente non entusiasmanti.

Diablo 3 ha provato che è possibile realizzare un'economia 'reale' in un videogioco senza l'apporto degli NFT.

Nei videogiochi contemporanei non c'è alcuna necessità pratica di inserire NFT, neppure per creare un'economia reale, dal momento che esistono diversi esempi di produzioni - come Diablo III - che sono riuscite in questo intento senza affidarsi in alcun modo ai Token. E allora quale sarà il percorso scelto per integrarli? Quale sarà la necessità, la modifica all'impianto di gioco o la nuova meccanica di fruizione che verrà creata per rendere l'acquisto o l'inseguimento degli NFT una scelta appetibile agli occhi di milioni di appassionati?

Nel caso di Axie Infinity di Sky Mavis, uno dei titoli più popolari basati su NFT, quel drive è stato posto nella promessa di un guadagno reale agli allevatori di axie, che sono piccole creature assimilabili ai ben più noti Pokémon. Come esposto da Massimiliano: "Tanti giocatori, soprattutto gli 'scholar' che prendono in prestito gli axie, stanno guadagnando meno del salario minimo nelle Filippine (dove il gioco è molto popolare), pur dovendo investire molte ore del giorno per allevare gli axie. In Axie Infinity, insomma, le persone si stanno indebitando con l'aspettativa, a un certo punto, di iniziare a guadagnare. Gli "scholar", secondo le stime, rappresentano fra il 60 e il 65% della popolazione di Axie Infinity". E in tutto questo, Sky Mavis ha oggi raggiunto un valore di tre miliardi di dollari.

Le recenti dichiarazioni delle grandi compagnie del settore sono state accompagnate da un backlash delle relative community, una reazione che tuttavia non sembra sufficiente per dissuaderle dall'analisi e il probabile inseguimento di quello che, a onor del vero, è un mercato ricchissimo e in continua crescita.

Da una parte, poi, ci sono i videogiocatori affezionati che tentano di difendere un medium che percepiscono in pericolo, mentre dall'altra si sono erti i cripto-appassionati, che cercano di convincere i membri della comunità online delle dozzine di ipotetici benefici dell'eventuale implementazione.

Axie Infinity è un videogioco basato su NFT che promette guadagni agli Scholar, gli allevatori dei teneri axie. La realtà, però, è un po' diversa.

Dal canto nostro, non abbiamo elementi a sufficienza per stabilire dove risieda la ragione, e come successo con altre appendici poste ai sistemi di monetizzazione del medium sarà solamente il tempo a fornire risposte concrete, sia riguardo i metodi d'implementazione sia soprattutto nel merito dell'impatto sull'interezza della produzione videoludica, che al netto degli stravolgimenti finanziari ha toccato in epoca recente alcune delle sue vette più alte in assoluto, tanto nel sottobosco indipendente quanto nell'ambito dei tripla A.

Del resto, ciò di cui tutti sono in attesa, detrattori o sostenitori, è un autore che sia capace di regalare agli NFT una dimensione sensata dall'altra parte dello schermo senza ricamare l'esperienza unicamente attorno alla loro integrazione.

Di una cosa, però, siamo certi. Perché videogiochiamo? Per trascorrere del tempo di qualità. Alcuni traggono piacere regalando il proprio tempo alla competizione, altri donandolo alla ricerca dell'arte, altri ancora a semplici divertissment per svuotare la mente.

Ma quando l'essenza del videogioco abbandona i confini dell'opera per inseguire obiettivi esterni e slegati dalle ore che gli appassionati scelgono di riservarle, allora a perdere sono solo due categorie: i videogiocatori e i veri autori di videogiochi.

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Lorenzo Mancosu

Editor-in-Chief

Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.

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