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In difesa degli asset riciclati nei videogiochi - editoriale

Le animazioni sono le stesse? E allora?

Il trend che vede qualsiasi progetto, annuncio o showcase legato al mondo dei videogiochi finire nell'occhio di un metaforico ciclone fatto di lamentele non ha la benché minima intenzione di rallentare la sua corsa: ormai, ogni singola produzione sembra destinata ad attraversare la fossa dei leoni prima ancora di giungere nelle mani del pubblico.

Talvolta il mirino viene centrato sulla rappresentazione estetica di un protagonista, di tanto in tanto capita che l'oggetto delle critiche risieda dell'inquadratura scelta dagli autori, magari la rabbia si concentra attorno alla veste grafica, ed è addirittura accaduto che le folle inferocite si scagliassero contro una componente narrativa che non avevano assolutamente avuto modo di saggiare in prima persona.

Oggi però parliamo di un argomento leggermente più delicato, uno che è tornato a farsi vivo proprio nei giorni scorsi, quando una fetta della comunità di appassionati ha espresso il proprio malcontento riguardo la presenza di alcune animazioni di Horizon Forbidden West che sarebbero state "riciclate" direttamente da Horizon Zero Dawn. Una discussione, questa, che si lega indissolubilmente alla tematica del riciclo di asset - e non solo di asset grafici - nel contesto dell'opera videoludica.

Gli utenti hanno notato che in Horizon Forbidden West ci sono animazioni riutilizzate. E quindi?

Una tematica che risulta più che mai complessa da analizzare a causa della sua natura multiforme, dato che la presenza di asset riciclati non può assolutamente essere inquadrata come unicamente positiva o negativa, soprattutto a causa del procedimento di accettazione condizionale che sta caratterizzando le battaglie dell'utenza, portando gli appassionati ad attaccare determinate caratteristiche di un'opera per poi far finta che non esistano nei confini di un prodotto più amato.

Viene da sé che la pratica del riutilizzo di asset di sviluppo è vecchia quanto sono vecchi i videogiochi stessi. Anzi, in un certo senso è stata una delle forze motrici della fase embrionale dell'industria, quanto pochi programmatori appassionati condividevano idee e frammenti di codice al fine di spingere oltre il limite la propria ambizione tecnica e artistica.

Ma i tempi sono cambiati, e oggi è molto facile storcere il naso di fronte a una meccanica preesistente e integrata in un titolo recente, ed è ancora più semplice quando a finire sotto la lente di ingrandimento sono asset grafici e animazioni, secondo un processo che ai giorni nostri viene visto come il frutto di pura e semplice negligenza. Incontrare in un sequel il medesimo nemico di un capitolo precedente intento a sfoggiare il medesimo comportamento, ne siamo quasi certi, è una cosa che non fa piacere a nessun videogiocatore.

Majora's Mask è stato quasi interamente sviluppato con asset riutilizzati.

Ma allora perché imbastire una difesa degli asset riutilizzati? Beh, perché la storia dei videogiochi è lastricata di opere che sono riuscite a vedere la luce del sole proprio grazie all'esistenza di questa pratica, nonché piena zeppa di titoli che hanno fatto della continuità tecnica il proprio cavallo di battaglia, per non parlare delle vette tecniche raggiunte da titoli realizzati all'interno di vasti ecosistemi di sviluppo condiviso. Tutto questo, ovviamente, non preclude il fatto che la smodata operazione di riciclaggio avvenuta in epoca recente sulle sponde di brand più che blasonati abbia inevitabilmente portato i consumatori a porsi delle domande.

Nel 1996, il nome di Nintendo era sulla bocca di tutti. Ciò era dovuto principalmente all'incidenza che il Nintendo 64 ebbe nella cultura di massa, anche se poi dovette soccombere allo "strapotere" di Sony PlayStation. Ma gran parte del risalto mediatico di Nintendo era da associare alle straordinarie opere che sfornò in quell'epoca, e fra tutte a The Legend of Zelda: Ocarina of Time, che ancora oggi siede indisturbato in vetta alla classifica di Metacritic ed è considerato dalla stragrande maggioranza degli appassionati come il miglior videogioco di tutti i tempi.

Quello che ci interessa, tuttavia, è che mentre lo sviluppo di Ocarina of Time richiese cinque intensi anni, quello del sequel Majora's Mask ne pose solamente due sulle spalle degli artisti di Nintendo, dal momento del pitch fino a quello della pubblicazione. Ciò fu possibile unicamente a causa del fatto che oltre a utilizzare il medesimo motore, il titolo avrebbe sfruttato praticamente ogni singolo asset inserito nel primo capitolo per Nintendo 64, snellendo considerevolmente i lavori. Il risultato finale si presentò come un'avventura estremamente originale, per non dire unica nel suo design, ciò che di più distante si potrebbe immaginare dall'idea diffusa del "more of the same".

Le similitudini fra la Senu di Assassin's Creed Origins e i droni di Ghost Recon hanno fatto storcere il naso ad alcuni appassionati.

Anche se abbiamo preso a modello due fra le opere più quotate nella storia del medium, questo genere di ragionamento e di approccio allo sviluppo ha rappresentato una delle chiavi di volta nella sostenibilità dei grandi progetti per svariati anni, basti pensare alle numerosissime release a cadenza biennale e a tutte quelle figlie di generi ormai desueti e facilmente replicabili, come i Crash Bandicoot, i Banjo-Kazooie, o ancora le tantissime avventure di Lara Croft pubblicate nell'età dell'oro delle tre dimensioni, e persino le più immense, come i primi Grand Theft Auto.

Inevitabilmente, l'iperbole evolutiva che ha caratterizzato il mondo della tecnologia ha stravolto le formule cui i professionisti erano abituati: lo sviluppo di videogiochi è diventato molto velocemente un processo estremamente lungo e dispendioso. Branche come modellazione, animazione e rigging sono oggi molto più complesse e impegnative rispetto al passato, diversi prodotti si sono avvicinati pericolosamente al limite tecnico della propria epoca, e tutti questi elementi hanno pesato enormemente tanto sui cicli produttivi quanto sulle esigenze degli appassionati.

Oggi la volontà di assistere alla release di un nuovo episodio di una saga amata deve necessariamente scendere a patti con delle tempistiche oltremodo dilatate, e si è venuta a creare un'inevitabile frattura fra le diverse esigenze dei fan. Milioni di persone, ad esempio, attendono con ansia novità sul prossimo capitolo nella serie di The Elder Scrolls e vorrebbero riceverle in tempi ragionevoli, ma al contempo criticherebbero senza indugio una nuova implementazione della scorsa versione del Creation Engine di Bethesda, tutt'oggi ancorata al vetusto GameBryo, per non parlare di un'eventuale sfruttamento di asset preesistenti.

L'implementazione del Kanto in Pokémon Oro e Argento è uno dei riutilizzi di asset più intelligenti di sempre.

È vero che probabilmente la cattiva ricezione della prassi di riutilizzare asset deriva dallo sfruttamento smodato che se ne è fatto a partire dalla settima generazione di console, un momento in cui diversi filoni creativi si sono presentati sul mercato forti di pochissime e talvolta nessuna modifica alla formula originale. In certi casi, le meccaniche già rodate sono state esportate anche nei confini di brand proprietari dello stesso publisher, mentre nessuno, in epoca moderna, ha portato a termine un'operazione paragonabile a quella di Majora's Mask, sfruttando risorse di sviluppo preesistenti al fine di realizzare qualcosa che fosse dotato di una marcata identità.

Il che, d'altra parte, ci porta alla difficile questione della continuità meccanica, una necessità che tocca la maggior parte delle opere che trovano il proprio successo nell'identità tecnica. Esempi piuttosto calzanti sono quello di Monster Hunter, che per questioni ragionevoli ripropone spesso e volentieri i medesimi mostri, le stesse animazioni e diversi modelli già noti, ma soprattutto quello della maggior parte dei titoli picchiaduro, che scontenterebbero un'immensa fetta dell'utenza se non reinserissero personaggi e moveset con cui gli appassionati hanno sviluppato un forte legame.

Forse l'esempio più celebre è quello della serie Dark Souls, e più in generale dei soulslike di FromSoftware che si apprestano a tornare sul mercato con Elden Ring, opera dalle grandi premesse che, d'altra parte, non ha alcuna intenzione di mascherare la continuità dell'ispirazione tecnica della serie. È evidente che asset, moveset e animazioni siano stati usati e riutilizzati più volte dallo studio giapponese, talvolta per fini di continuità tecnica e talvolta per mero risparmio, eppure è un fatto che la polemica in merito sia emersa molto, molto raramente.

Quella del sequel di Breath of the Wild potrebbe essere un'operazione molto simile a Majora's Mask.

La domanda sorge spontanea: il pubblico tende a lamentarsi del riciclo di asset in contesti come quello delle animazioni di Horizon Forbidden West, e di riflesso a non farlo nei riguardi di quelle di FromSoftware, perché opera un processo di discernimento tecnico oppure perché semplicemente mossa dalle proprie passioni? Perché alcuni comportamenti sono accettabili se promossi da un attore del mercato e non lo sono quando adottati da qualcun altro?

Come mai SIE ha fatto bene ad acquisire imprese come Sucker Punch, Naughty Dog ai tempi, Housemarque, Firesprite e Insomniac Games per poi renderne esclusive le produzioni, mentre Xbox Game Studios dovrebbe risultare brutta e cattiva quando applica una strategia di acquisizioni e suggerisce una probabile esclusività dei suoi prodotti? La sensazione, purtroppo, è che alla disamina ragionevole del settore - e non solo di questo settore - si sia ormai irrimediabilmente sostituita la dialettica del tifo da stadio anche quando ci sarebbero gli estremi per avviare discussioni lecite, proprio come abbiamo tentato di fare nel caso di Horizon Forbidden West incappando nelle ire della community.

Tornando a monte, probabilmente ciò che manca al medium contemporaneo per promuovere la bontà delle operazioni di riutilizzo di asset è uno sfruttamento creativo e assennato, simile a ciò che fu ad esempio Pokémon Oro e Argento per GameBoy, che spingeva il protagonista ad esplorare la regione di Kanto già visitata nelle opere originali, sfruttando l'espediente del time-skip per ravvivare l'interesse e stuzzicare al tempo stesso la nostalgia, mascherando a dovere il considerevole aumento delle ore di gioco ottenuto grazie a un mero processo di riciclaggio.

La sensazione è che il percorso adottato da Nintendo per l'attesissimo sequel di Breath of the Wild rappresenterà qualcosa di molto simile all'operazione Majora's Mask, e sarebbe molto difficile quantificare la mole di lavoro che una simile scelta porterebbe a risparmiare nel contesto contemporaneo. Una volta dimostrata la fattibilità di progetti di questo genere, risulterebbe oltremodo difficile lamentarsi del riutilizzo di un'animazione di camminata all'interno di un sequel, per giunta rilasciato per la medesima macchina del predecessore, una cosa che rappresenta una piccolezza incredibile capace di alleggerire un mercato del lavoro in condizioni critiche.